Qualche riflessione sulle ultime pubblicazioni Leo Records.
Parto dal giovane pianista tedesco
Lucas Leidiger che si presenta nei suoi
Dialogues con il sassofonista belga
Daniel Daemen. Leidiger ha studiato con Kaufmann e Gratkowski, tuttavia il suo background è più strettamente jazzistico rispetto ai due improvvisatori e
Dialogues parla dunque un linguaggio jazz più coerente con le sue radici, seppure interessante e che presuppone comunque sviluppi nelle zone libere degli strumenti.
Dialogues ammette un sacco di padroni, da Jarrett a Jackson, dai sassofonisti lenti del jazz a quelli moderni e tematici alla Binney, e paradossalmente alcune delle spinte ispirative che Leidinger dichiara di possedere sono difficoltosamente ricomposte nell’ascolto musicale (Abraxas rivendica lo studio di Berg e Schoenberg ma ne è lontana negli esiti). Ne deriva, dunque, una sorta di jazz inesorabile, dalle sonorità raffinate e sinuose, dove gli strumenti conducono temi di diversa estrazione umorale: si esprime da una parte una lentezza interpretativa, che spesso sconfina in passaggi striscianti o forme di cantabilità delle linee melodiche, dall’altra si cercano refrains ritmici improntati al gaio o ad una severissimo concetto dell’auto-ironia; alla fine, nella rete entra il bop (Summer in CPH), la nostalgia classica o quella nordica (Ankomst), il canto armonico (Icelandic Sunset). Potremmo accontentarci già di questo, tuttavia mi sento di poter affermare che un ulteriore sviluppo della dimensione non convenzionale non sarebbe un male: è qualcosa che si nota fin d’ora nella propensione all’allungamento dei temi tramite espedienti abbinabili alle tecniche estensive, così come succede nella parte centrale di Fi-fi flubber.
Stephen Rush è un apprezzato pianista e compositore americano, che qui si presenta con il progetto dei
Naked Dance!, un trio con Andrew Bishop ai clarinetti soprano e basso e Jeremy Edwards alla batteria. Per questa pubblicazione discografica Leo Records e per quanto ne serve in quantità, Rush aumenta l’organico ad un basso elettrico e sintetizzatore (Tim Flood) e a una tromba (Davy Lazar).
Something Nearby è un melting pot musicale ricondotto ad unità stilistica: è chiaramente ispirato al chamber jazz, soprattutto quello primordiale che veniva costruito nell’epoca del Third Stream da musicisti come Schuller e Giuffre, ma include anche altri elementi puri o sperimentali: tra i primi l’idioma del New Orleans jazz (lo puoi ascoltare vivace in Ninth ward from the sun), la modalità come ossatura del pezzo e del suo accompagnamento (la trovi in Simple Subtraction) e le tensioni armolodiche di Ornette (le senti in See Ya); tra i secondi l’improvvisazione vista alla Braxton come relazioni in celle (Something Nearby) o quella completamente devoluta all’esecutore nei Time Cycle. I Time Cycle propongono un bel vortice casuale di incontri e di soluzioni: suonati con partitura grafica ad libitum su ovali e cerchi, sono emblema dell’espressione del momento. Lo scopo è spingersi con gli strumenti dove è possibile e trovare consonanze non importa di quale colore: possono essere tenere o forti, preoccupate o enfatizzate; è sulla base dei Time cycle che Rush ha fondato un uso astruso del rhodes o del micromoog (involontariamente richiamando stilemi dell’elettronica), oltre alla normale timbrica pianistica; in questo è ben coaudiavuto da Bishop, che tira in lungo e largo i suoi clarinetti e dalla ritmica eterogenea e free jazz di Edwards. Something Nearby è dunque godibile ed è intelligente soprattutto dal punto di vista della strategia compositiva.
Del flautista Stefano Leonardi ve ne ho già parlato in queste pagine e tra le altre cose, Leonardi ha portato a termine un bellissimo progetto su Thomas Chapin proprio alla Leo R. (vedi qui). Ritorna per Leo R. con L’Eterno, un quintetto di splendidi musicisti italiani e svizzeri, che si sono ritrovati a Milano a registrare insieme per concretizzare le sue idee. Il titolo richiama la sensazione ricavata dalla visuale di un defunto cirmolo millenario che si trova sulle montagne Lagorai del Trentino: raggiungibile solo dietro percorso trekking, questo ceppo porta con sè mistero e la sensazione di una sentinella della natura pietrificata. Leonardi, però, vuole sfatare il luogo comune della musica che viaggia eterea e il suo è un Eterno parecchio diverso dai nostri normali pensieri: munito dell’art design ultranaturale di Massimiliano Amati, Leonardi propone una nuova vita del cirmolo, con nuova linfa che penetra il suo corpo e si irradia in immagini deformi al di fuori di esso. Il principio è quello di recuperare tutte le tensioni, le rotture e gli strappi della simbologia allo scopo di fornire una trasfigurazione che vada oltre l’ambito che di solito attribuiamo all’albero e alla natura in generale. Musicalmente la rotta è perciò segnata: Leonardi si circonda dei musicisti più consoni alla sua idea, partendo da Heinz Geisser alla batteria, Marco Colonna ai clarinetti e ad una coppia di cordatura violoncello-contrabbasso affidata a Antonio Bertoni e Fridolin Blumer.
Sin dalla prima nota del lavoro (Old Roots) si è catapultati in una situazione sonora che mostra gli strumenti in preda ad un crisi di nervi, senza rispetto dei ritmi, convulsioni di vario genere che si accordano per descrivere uno scenario dalle tinte forti, realtà catartica elaborata in musica: per la maggior parte di L’Eterno si accusa uno stato tensivo continuo, con Leonardi che lancia strali o arpeggia in modalità perpetua, Colonna che esplora/esplode la gamma dei suoi clarinetti (impressionante è la forza di Resistance) e si accorda al tenore del lavoro e Geisser che agisce da rullo compressore; Bertoni e Blumer intervengono con tecniche estensive che lavorano su una loro combinazione “industriale” (in Spirit inside sembrano girare come gli ingranaggi di una giostra contro la riflessione o l’oscurantismo dei fiati); in questa bolgia di sentimenti c’è spazio anche per un aroma etnico, dal momento che Leonardi inserisce in alcune parti flauti rudimentali o tradizionali della Sardegna (si tratta del sulittu e delle launeddas).
L’Eterno è dunque uno schizzo free, astratto espressionista fino al midollo, una speciale connessione di eventi: per via dei suoi impasti fa pensare ad una riunione hippies nel culmine delle sue procedure, ad una comunità pagana alla Apocalypse now o ad una rigorosa lezione dell’interiore dopo un’escursione, e l’intro di Echoes o il finale di At last forever sono intonazioni sugli acuti degli strumenti che propongono una specie di fischio universale, da considerare come una nuova sveglia del mondo.