Tra il ’76 e il ’78 Nelson Goodman scrisse due libri fondamentali di filosofia e teorizzazione di un sistema dei simboli (Languages of art e Ways of worldmaking), che portavano a compimento quel costruttivismo interpretativo che aveva raggiunto anche la musica più di un ventennio prima, tramite il giro dei compositori newyorchesi. In particolare Goodman insinuava l’idea che non esistesse un’unica realtà a cui dobbiamo dare conto, bensì plurime manifestazioni di esse a seconda dello schema concettuale a cui ci riferiamo: un uomo può essere considerato secondo la sua struttura cellulare, secondo la sua posizione sociale o per le sue particolari qualità, e la nostra variabile interpretazione non solo non ammette il predominio valutativo di una “versione” rispetto ad un’altra, ma è passibile di essere misurata con tanti mezzi (posso usare la descrizione verbale, i numeri e la geometria, posso disegnarla o anche suonarla). Di tale complessità ne fece lezione anche Earle Brown (1926-2002) nel momento in cui capì che sarebbe stato necessario liberare la partitura dalle convenzioni, attraverso un sistema compositivo di segni, che rimettesse nelle mani dell’esecutore un compito importantissimo: poter scegliere l’ordine di esecuzione degli eventi, poter determinare che tipo di flessibilità vuole utilizzare e soprattutto, dover far scaturire un mondo musicale sulla base di una traduzione della grafica che, nel caso di Brown, spesso prevede solo una serie di linee orizzontali o verticali dotate di una lunghezza o spessore variabile, di un’indicazione di intensità e di un tempo di relazione. Senza addentrarci nelle incredibili implicazioni che questo ragionamento può portare (Brown invitava a trovare addirittura una seconda o terza dimensione della partitura), ciò che è semplice intuire è che la logica deduttiva ci impone di pensare a grandi interpreti, abituati anche all’improvvisazione e capaci di ottenere in modo proficuo questi difficoltosi risultati: appartiene ad essi anche il pianista Gianni Lenoci, che in una pubblicazione Amirani formalizza il suo lavoro per l’americano con una sua selezione riconosciuta; si tratta di una registrazione che era stata paventata nel marzo 2016, dopo che Lenoci aveva ricevuto il Grant Program dalla Earle Brown Music Foundation. Grazie a Donatello Tateo, Lenoci ci rilasciò un’intervista specifica, in cui sottolineava motivazioni e progettualità del suo interesse verso Brown, ricomponendo collegamenti interessantissimi con Bach (puoi leggerla qui)
Selected works for piano and/or Sound-Producing Media contiene la prima composizione dell’americano del 1949 collegata a Frost, dal titolo Home Burial, in cui serpeggia ancora una personalissima impronta seriale, parametrata però su affascinanti gruppi ritmici; contiene gli otti temi di Folio (1952-53), pezzi in cui si può cominciare a fare la conoscenza di quanto detto prima a proposito della partitura, con notazioni designate per “…incoraggiare la “mobilità” concettuale nell’approccio dell’esecutore alla partitura…“; poi January 1954 dai 4 Systems e gli immancabili Twenty-five pages. Va da sè che Lenoci si misura in un repertorio che è stato calcato da splendidi esecutori in passato ed è dall’ascolto comparato con essi che si può ricavare un’informazione aggiuntiva.
Quanto a Home Burial, la versione di Lenoci si affianca a quella di Sabine Liebner (che si può trovare in un cd per la Wergo dal titolo Abstract sound object) contenendo in comune quella “macchia” armonico-espressiva che probabilmente ha stimolato l’interesse di Lenoci per Brown; per quanto riguarda Folio, bisogna tener presente che Brown aveva previsto variabilità nella strumentazione e nelle durate: ciò significa che, mettendo da parte le versioni non per piano solo, ci si ritrova con le interpretazioni “velocissime” e piene di contrasto di David Arden, l’impostazione estensiva della December 52 di David Tudor e le accresciute dinamiche profuse da Michael Daugherty con l’ausilio di nastro e computer, per finire al ciclo completo della Liebner, dotato di maggiori lunghezze di tempo e di un allungamento atto a mettere in evidenza risonanze e silenzi; la versione di Lenoci calca sul misterioso, proietta molte sensazioni, lavorando su una causalità meravigliosamente costruita con cellule sonore che si perdono nello spazio d’ascolto: il culmine è December 1957 52, architettata tutta sulla valenza emotiva grazie ad un continuum sonoro fatto di cadenze calibrate in note fuori controllo, effetti estensivi ed inserzioni radiofoniche. 4 Systems ha analogie con la versione di Daugherty, ma qui il piano è completamente bandito da una aggiornatissima e seria trance di elettronica; per Twenty-five pieces Gianni deve competere con le versioni di Steffen Schleiermacher, Rzewski e Tudor, ma almeno per durata è a quella della Liebner che si avvicina con una estensione di 25 minuti, distanziandosene però completamente per altri elementi: nel rispetto dell’identità compositiva fornita da Brown (un contenuto sonoro fisso anche se flessibile), Lenoci si approccia per una digressione dinamica, una cascata di note scomposte, in arpeggio irregolare, sprovviste del tempo naturale. Quella di Lenoci è senza dubbio la migliore versione che io abbia ascoltato, penso ne sarebbe stato contento persino Brown.
Con Twenty-five pieces Brown si congiunge compiutamente con i mobiles di Calder e gli istinti creativi di Pollock: grafici prossimi all’immagine ed un patto suggestivo ed ambiguo con gli esecutori. Tra Webern e Cage, Brown si presta dunque ad un’attività di esplorazione che può essere ancora portata più in avanti ed è forse questo il messaggio che questo splendido cd di Lenoci vuole rappresentare.