Sembra che nel Dna degli abitanti primordiali dell’Australia ci sia sangue sudafricano, una affermazione che ci fa riflettere sull’ancestrale e difficoltoso tragitto che gli uomini del Sud Africa hanno affrontato per giungere nella terra dei canguri; ma c’è anche un’altra anologia che balza sul presente e che sta in quella dominazione politica che hanno subìto gli aborigeni in seguito ai processi di colonizzazione degli inglesi: un altro tipo di apartheid, basata sull’allontanamento dei ragazzi aborigeni dalla propria terra e cultura. Resta logico, quindi, che in questa situazione, compositori e musicisti del novecento hanno dovuto ricucire le maglie completamente sfilacciate del rapporto con le popolazioni originarie del luogo: John Antill nel ’46 con Corroboree, utilizzò Stravinsky e Bartok per ricomporre il primo passo di un percorso di avvicinamento, ma è stato Peter Sculthorpe, in una fase specifica della sua carriera, a reinventare un’identità sonora del suo Paese, mettendo assieme la tradizione aborigena, l’ampiezza del paesaggio ed elementi musicali dei vicini Bali e Giappone; in Kanadu o Earth Sky, Sculthorpe esalta le sintesi della melodia delle popolazioni del Nord dell’Australia ed riafferma in maniera inequivocabile l’importanza dello strumento principe degli Aborigeni, ossia il didgeridoo. L’interesse verso questo lungo tubo con più di 1500 anni di storia, ha dato luogo al risveglio di una cultura specifica, che è fatta di semplicità, connotazione naturale, di cerimoniali e di tante narrazioni tramandate di padre in figlio: spesso è sufficiente guardare un dipinto per rendersi conto dei pensieri attribuiti agli agenti naturali e alla fauna; nell’ottica musicale, bisogna sottolineare come sia tornata in auge la figura del suonatore di didgeridoo: Sculthorpe aveva contattato William Barton, ma il campo era ormai stato aperto da eccellenti musicisti come Mark Atkins, Alan Dargin o David Hudson; quest’ultimo accompagnò l’espansione nella new age ed ambient music delle avventure tribali di Steve Roach, cominciate con Dreamtime return.
Di fianco all’uso estensivo del didgeridoo, gli aborigeni inviarono un flusso di ritorno alla musica occidentale, adottando schemi parecchio vicini alla musica folk o country americana: questo recente ed innocuo sodalizio (circa trent’anni indietro a partire da oggi) è stato il leit motiv di parecchi artisti, compreso Gurrumul Yunupingu, musicista di Elcho Island, un’isolotto sperduto lunga la costa di Arnhem Land, l’estrema punta settentrionale dell’Australia. Vi parlo specificatamente di lui poiché l’operazione di commiato che Erkki Veltheim e Michael Hohnen hanno costruito in sua memoria (Gurrumul è deceduto a luglio dello scorso anno) è idea totalmente differente dal folk usualmente proposto: Djarimirri (Child of the rainbow) è una raccolta di tradizionali aborigeni di Arnhem, che vengono arrangiati in un’orchestra impostata ai criteri minimalisti. La voce di Gurrumul viene esaltata in doppio e in armonico, lavorando su testi espressi in linguaggio Yolngu, dotati di una semplicità disarmante ma con un afflato di libertà dilagante; il confronto con la musica minimalista fu tentato già qualche anno fa da Glass con Mark Atkins nella composizione Voices for didgeridoo and organ, ma si trattava di qualcosa di parecchio embrionale rispetto a quanto fatto da Veltheim e Gurrumul: in Djarimirri non c’è solo l’entrata in gioco di un’orchestra, ma finanché il rispetto e la profondità degli orizzonti di una popolazione. Gurrumul canta come se fosse coinvolto durante una cerimonia, c’è un urto, un’avvertimento dietro le pagane celebrazioni dell’irradiamento e della fauna (corvi, polipi, serpenti, etc.), che musicalmente funziona benissimo, perché contrappone un simbolo del decadimento ad una forza preistorica, aprendo a soluzioni candide ed immacolate.