L’entrata in scena della cantautrice statunitense Suzanne Vega (metà anni ottanta del Novecento) avviene in un momento in cui sembra calare l’interesse degli ascoltatori di rock e pop music verso il mondo dei folksingers. Una ragazza riservata, dall’aspetto innocente e con un timbro vocale unico (una voce senza tono, afona, che incorpora una calma apparente), è capace di far riemergere il gioco degli arpeggi acustici alla chitarra e delle narrazioni che confidano nel valore poetico, e di rinverdire una generazione di cantautrici donne che, o si è era perduta per cause varie (la morte di Laura Nyro, gli stereotipi di Carole King), o aveva preso altre strade (la magistrale virata fusion jazz di Joni Mitchell). Il Suzanne Vega, primo album omonimo del 1985, pur avendo un gancio in quelle situazioni, fissa nuove coordinate: non c’è romanticismo o esasperazione nel prodotto della Vega, né tanto meno le sedute dallo psicologo della Mitchell; il suo è un realismo descrittivo, un’osservazione senza giudizio degli eventi.
Suzanne, due anni dopo, colpirà ancora più nel segno con Solitude Standing, album che contiene i suoi cavalli di battaglia (Tom’s Diner e Luka), ma non sarà particolarmente feconda nelle registrazioni (dopo Solitude Standing, appena 7 albums in 31 anni!), molte delle quali non avranno l’omogeneità musicale dei suoi primi due lavori. Ciò non toglie che ogni canzone della Vega presenterà dei temi specifici (l’infanzia violentata, l’erotismo controllato, l’autobiografia familiare, etc.), trattati con dei versi che non ruberebbero nulla ad un poeta consolidato; Vega ha sempre dichiarato di avere come fonte di ispirazione Leonard Cohen, ma il suo istinto poetico è differente da quello di Cohen, mentre è influente il suo per le cantautrici che le arrivano a ridosso: in Tori Amos, Lisa Germano o Fiona Apple c’è un po’ della sua drammaturgia ad intensità spenta; il rischio, oggi, è l’obsolescenza della sua figura, quella di una donna che sembra non aver fatto molto rumore nel rock, e che teoricamente potrebbe essere dimenticata allo stesso modo con cui timidamente è entrata nella pop music; la risonanza che provocava la sua musica nei ventenni/trentenni negli anni di Solitude Standing, legata ad un altro tipo di impostazione della gioventù è materia difficile da ritrovare nell’ipotetico gradimento di una categoria giovanile della stessa fascia d’età rapportata ai tempi odierni, dato il pessimismo che ha raggiunto il cantautorato e date le abitudini d’ascolto. Ma non è musica vecchia, assolutamente conserva il suo valore nel tempo.
E’ molto interessante come Donato Ferdori, ricercatore di Filosofia all’Università di Bologna, ha sviscerato l’impianto testuale della cantante, con un saggio Mimesis che rientra nella collana filosofica applicata alla musica: La filosofia di Suzanne Vega, Neighborhood Buddhas, tenta una ricostruzione parcellare delle tematiche espresse dall’americana, basandosi sulle somiglianze con le impostazioni di una certa pratica buddista, che come è risaputo, è la religione di Suzanne. Nel testo di Ferdori, compaiono con una chiarezza proverbiale tutta una serie di collegamenti tra le liriche delle canzoni, che vengono giudicate secondo alcuni principi del Sutra del Loto e di Nichiren, il monaco buddista giapponese; è così che si scoprono delle affinità spirituali con la trasformazione del karma, con le quattro sofferenze, il rapporto con il sangha e il dharma, tutti argomenti che vengono ben sviluppati da Fedori con fonti sussidiarie a supporto.
Naturalmente non sappiamo se la Vega approvi queste analisi, data anche la sua reticenza nell’esprimere concetti legati alla sua disposizione religiosa, ma è difficile mettere in dubbio certe letture dell’artista e alcuni comportamenti che Ferdori ha rilevato nel suo saggio (tra i più potenti c’è la risposta che l’artista diede ad un suo concerto ad un fan che le aveva gridato “..your sweetness will never die…“, risposta che avvenne qualche secondo dopo con “..Yours too!..“). Inoltre, dal punto di vista filosofico, è molto interessante l’istituzione di un’influenza Kantiana di fianco a quella buddista, che si sviluppa da La religione nei limiti della semplice ragione.
Con queste premesse che vi ho fornito, dunque, il saggio di Ferdori ha tutte le carte in regola per essere un’allettante lettura, oltre che suscitare una veduta al microscopio del pensiero della Vega, tutta da verificare. Se tutto fosse vero, non dovremmo essere sorpresi di trovarci di fronte ad un personaggio tutto da riconsiderare, anche dal lato caratteriale. Come semplicità ed aderenza spirituale.
L’apparenza dell’esperienza live può trarre in inganno ed appannare la costruzione appena eretta, specie se qualcuno si aspetta di trovare davanti a sé un santone: ho partecipato ad una delle sue poche date live in Italia a luglio, uno spettacolo che la Vega porta avanti da molti anni con il chitarrista Gerry Leonard, in un cliché ben definito di pezzi, passaggi sonori e movimenti. Ciò che si impone in prima istanza è la sua scrittura musicale raffinata, le costruzioni rock di supporto all’acustica e gli ondeggiamenti ambient di Leonard ed anche l’abbigliamento nero di Suzanne (quello dei poeti nell’oscurità), ma si intuisce che Suzanne cerca una soddisfazione completa in ogni suo spettacolo, per sé e per il pubblico, nonostante l’usura del tempo; sembra che le parole di Ferdori siano da bere tutte intere “….l’altruismo come abnegazione, intesa come rinuncia alla propria felicità, è impossibile ed è un’illusione dannosa. Cercare di realizzare al tempo stesso la propria felicità e quella altrui: questo insegna il buddismo. L’altruismo vero è un egoismo eterocentrico...”