Nella musica molte cose sarebbero meglio spiegate se si lasciasse spazio ad un equilibrato tandem di razionalità e sentimento. Un’educazione ed un’aderenza filosoficamente ricca su quanto è possibile ricavare dagli aspetti molteplici della musica sarebbe auspicabile ai fini di un vero e proprio rinascimento culturale. Il Novecento ha insegnato che i nostri sistemi uditivi, oltre alle combinazioni armoniche, sono affascinati anche da quelle timbriche, direttamente a contatto con la filosofia del suono: è da qui che si può impostare una teoria delle estetiche musicali nettamente contraria a quanto propone il gusto e le speculazioni di una superficiale visione delle nostre emozioni.
Nel fondamentale Il libro dell’inquietudine, Fernando Pessoa fece un richiamo costante alla musica, vissuta come spiegazione scientifica e propaggine di una memoria immaginativa: l’accoglienza di qualsiasi tipologia di suoni serve per dare un volto preciso a quell’equilibrio di cui si parlava prima. Viene investita la coscienza dell’ascolto e le sue sfumature psicologiche e sociali, una circostanza che irrimediabilmente mette a nudo l’imperfezione della vita, i suoi pregi e difetti: la musica, dunque, può raggiungere questi livelli, essere una felice/dolorosa disanima della realtà, il canale preferenziale dell’espressione della coscienza.
Di questa lezione ne hanno fatto buon uso molti musicisti e la citazione di Pessoa non è causale, dal momento che le sue prescrizioni si ritrovano intatte nel modernismo musicale (quello che prende vita da Schoenberg in poi) di molti musicisti portoghesi dell’improvvisazione: tra questi un posto speciale lo occupano Manuel Mota e Margarida Garcia, musicisti portoghesi sperimentali dal percorso misto; ispirati dalle oscurità delle costruzioni mentali, i due hanno importato molto del meglio delle scoperte contemporanee della musica e le hanno distribuite nella loro espressione.
Nel 1998 Manuel Mota fondò l’etichetta Headlights per dare consistenza ed un posto privilegiato al suo linguaggio: alla ricerca di suoni nuovi delle chitarre, come molti chitarristi sperimentali, Mota ha superato una prima fase da laboratorio con la complicità di tools non convenzionali, registratori di campo, feedbacks e posizionamenti spaziali strategici (il cartello di Environmental Analysis Report), per poi stabilizzarsi gradualmente e con sempre più maturità in un sound criptato, quasi sempre condotto sulla chitarra elettrica, frutto di una ricerca millimetrica sulle caratteristiche sonore di particolari accordi o note profuse in condizioni non convenzionali: improvvisazioni geneticamente appartenenti all’apparato delle idiosincrasie del secondo novecento chitarristico. Dentro questo mondo asincronico trovate Bailey e i suoi successori (sia gli atonali che gli sghembi), l’importanza dello spazio sonoro e dei silenzi di Cage e dei suoi successori (Mota diede inizialmente spazio a Sei Miguel, un altro musicista portoghese particolarmente interessato ai vuoti sensori dell’americano), i dirottamenti brevi e perspicaci sulle sonorità in drone (l’influenza di Young e Niblock).
L’ultimo suo lavoro doppio, dall’esanime titolo I II, è un vero punto di arrivo, poiché il lavoro di far muovere la coscienza, di farla parlare, è svolto a meraviglia; Mota ha un suo linguaggio specifico, unico e immediatamente riconoscibile, che scava incredibilmente bene la dimensione dell’inconscio. In questa esibizione registrata tra Ericeira ed Antwerp nel 2017, Mota muove solo una chitarra, ma i suoi artifici e le sue scoperte sulla tastiera documentano forse come non mai il desiderio di ripristinare una gestualità metafisica che produca un sentiero discorsivo e dannatamente attuale.
Per Margarida Garcia, valgono considerazioni equivalenti dal lato dell’oscurità prodotta: questa specialista del basso elettrico (con estensione su upright bass e double bass) è in grado di formare delle vere e proprie zone di condensazione dei suoni, dei tumulti a latere che lasciano esterreffatti nei loro risultati concreti; qualcosa tra il mistico, il bucolico e una sindrome di potenza. Una veloce ripassata della sua musica può essere fatta sul sito bandcamp dell’artista (dove troverete una splendida collaborazione con Marcia Bassett ed una con sua maestà Thurston Moore), ma il suo recente programmatico solo all’upright bass, registrato a Lisbona lo scorso ottobre, dal titolo Der Bau, non lascia spazio a ripensamenti; continua su una linea iniziata con Mota e Alfredo Costa Monteiro parecchi anni fa e portata avanti con dedizione oggi come musica che indaga gli smarrimenti della coscienza, attraverso gli ampi spazi indotti dall’improvvisazione e dalle attrazioni del momento performativo; sono intuizioni che si notano anche attraverso le ambientazioni delle sue copertine (immagini al limite della luminosità o totalmente annerite con emersione di particolari grigiastri di contrasto).
Nel frattempo la Headlights ha voglia di espansione e date le strutture musicali calcate, seguire Mota e Garcia significa offrire un gancio per molte operazioni sperimentali che trasversalmente lambiscono queste lande così speciali della musica: al riguardo è bene tenere in considerazione quanto fatto da molti artisti anglosassoni e giapponesi negli ultimi vent’anni. La composizione Wandelweiser, i chitarristi post-Onkyo mouvement e quelli della pletora delle pedaliere moderne, stanno avendo un ruolo sempre più condiviso nel mondo musicale chitarristico delle avanguardie; è quindi, sulle orme di quella disciplina che può essere studiata e nomenclata come “riempimento del silenzio” che si pone il lavoro di Takashi Masubuchi, un chitarrista influenzato da Taku Sugimoto e dalle evenienze relazionali delle pause acustiche; si tratta di “R, R, R”, una registrazione effettuata al Ftarri a Tokyo nei primi mesi del 2017, che mette in evidenza tre tappe di un percorso quasi didattico (risonanza, reazione, reiterazione).