C’è un punto in cui convergono le idee del pianista Mike Effenberger, della sua band Weird turn pro, della creatrice delle covers dei cds Katrine Hildebrandt, e del giornalista-scrittore Hunter S. Thompson, chiamato evidentemente in causa da una palese citazione: è la passione per il processo, inteso come insieme di elementi da percorrere (ognuno nell’ambito del proprio di settore di appartenenza) in vista di una identità. Scoprirne uno è come aver messo insieme secoli di storia in una ruota panoramica in cui ogni cabina porta con sè il proprio contributo. Mike si è messo in contatto con me qualche mese fa, proponendomi i suoi due lavori musicali, ed io, dopo aver inquadrato ciò che ascoltavo, sono andato immediatamente alla ricerca delle identità:
1) il richiamo a Thompson diventa fallace dal punto di vista musicale se pensiamo che la musica dei Weird turn pro possa richiamare il fatidico “fuel” che muoveva i gusti musicali ed il carattere dell’inventore del gonzo journalism; non c’è nè droga, né scorribande impervie, nè alcool nel pensiero di Effenberger e musicisti; al contrario c’è la fragranza e l’effetto benefico del jazz. Questa porta d’ingresso è però particolare perché introduce ad una sorta di etereo flusso del ricordo della tradizione jazzistica, in cui la materia improvvisativa impone ai partecipanti di creare constanti aggiornamenti in tempo reale delle melodie e delle emissioni.
Direi che tra le massime di Thompson, quella più consona al gruppo di Effenberger è quella contenuta in The Proud Highway, allorché lo scrittore afferma che: “….Every reaction is a learning process; every significant experience alters your perspective. So it would seem foolish, would it not, to adjust our lives to the demands of a goal we see from a different angle everyday? How could we ever hope to accomplish anything anther than galloping neurosis?…” Hunter S. Thompson, da The Proud Highway: Saga of a Desperate Southern Gentleman, 1955-1967.
2) Il cambio di prospettiva che si adegua minuto per minuto nell’atto dello svolgimento, serve non solo per inquadrare il processo creativo ma anche per sistemare con motivazioni congrue quello che sembra disordinato; i bellissimi disegni della Hildebrandt confermano che dietro lo studio delle geometrie sacre, c’è la volontà di trovare un senso a questo misterioso rapporto che si combatte da sempre tra caos e disordine e che sta tutto nel processo attuato (Katrine usa dei processi flessibili che coinvolgono compassi, matite brucianti, carte stratificate).
3) L’idea di Effenberger si arricchisce anche di un’altro elemento oltre al jazz, ossia di un impianto minimalista pianistico che frequentemente ritorna in circolo per miscelarsi con gli sviluppi della band; non si tratta del minimalismo di Glass o Reich, quanto di quello degli specialisti della classica moderna, che filtrano nostalgia ed armonie in poche note o accordi. L’aspetto predominante e fondamentale di The Repeatedly answered question (ottobre 2017) e soprattutto di Let me be unwound (luglio 2018) è che la musica nel suo complesso somiglia ad una “pasta” dentifricia, una gomma compatta che è veramente difficile trovare in giro per il mondo: gli standard di jazz, Carmichael, i quartetti/quintetti Blue Note, le orchestre alla Gil Evans o i gruppi moderatamente free jazz dei sessanta scorrono impastati nell’esperienza di ascolto, come in una quarantena ognuno si insinua a suo turno e il beneficio è quello della produzione di un suono cangiante: le note si allungano, le densità si apprezzano anche a chiusura d’orecchio, le vibrazioni della musica scorrono come il letto di un fiume e ciò che sembra scontato per il jazz non lo è più.