La scomparsa di Hamiet Bluiett toglie al mondo del jazz e dell’improvvisazione un altro dei suoi originali. L’importanza e l’influenza di Bluiett è plurima: prima della sua ascesa, il sax baritono viveva sostanzialmente sui postumi stilistici di Gerry Mulligan e Pepper Adams, in una linea di continuità partita da quanto fatto da Harry Carney con Duke Ellington. Nonostante il free jazz fosse già in una fase di avanzamento negli anni settanta, mancava uno sviluppo concreto su alcuni strumenti a fiato come baritono e clarinetto basso, poiché i musicisti si concentravano per una serie di ragioni sull’alto e il tenore; gli stessi, quando sconfinavano, continuavano a suonare baritoni e clarinetti come se avessero un alto o un tenore tra le mani; Bluiett vinse proprio questa convenzione, diventando uno specialista del baritono, con tanto di esplorazione libera; meglio di Braxton o Threadgill, Bluiett incarnò la filosofia della libertà che aleggiava profonda negli anni del Black Artist Group e dell’Art Ensemble of Chicago; fornì, dunque, una libera espressione che riorganizzava i rapporti del jazz con la tradizione, con il blues, con le sonorità spirituali e trascendentali figlie di un lavoro di congiunzione con le priorità dell’avanguardia del tempo. Con Hamiet il jazz conobbe al baritono molte delle tecniche estensive che oggi sono patrimonio comune di ogni improvvisatore (tecniche condotte sulle chiavi, sui flussi respiratori, su overtoni e verbalizzazioni), liberando potenza, prestanza lirica e nuovi disegni creativi. E’ un diritto di proprietà che gli spetta, un risultato che si acquisisce soltanto guardandosi indietro nella storia: gli arpeggi fantomatici che hanno reso famoso il sound di Mats Gustaffson o Colin Stetson, hanno una radice imponente nelle sperimentazioni di Bluiett, così come alcuni dei suoi temi (penso ad esempio a The Village of Brooklin, III 62059) non sono solo biglietti da visita di un tipo di vita e richiamo musicale dell’epoca, ma sono diventati mantici d’ingresso generalmente accettati per sviluppare gli impianti improvvisativi dei musicisti odierni.
Inoltre, il discorso su Hamiet non si ferma solo al baritono; Bluiett fu anche un ottimo flautista, un propulsore di una nuova funzione degli strumenti a fiato nell’ambito dei quartetti composti solo a base di sassofoni (molte delle sue idee entrarono nel World Saxophone Group), e riuscì nell’intento di dare occasioni di libertà ad una serie di clarinetti riuniti in una struttura basicamente costruita sull’old sound del jazz, in grado di mettere d’accordo tutto il flusso jazzistico da Ellington fino ai quei giorni: la Clarinet Family fu una concentrazione di clarinettisti mai vista prima (John Purcell, Don Byron, Buddy Collette, Dwight Andrews, J.D. Parran, Kidd Jordan) la cui esibizione fu immortalata in un album del 1987.
La prima parte della discografia dell’americano conserva ancora oggi un fascino fortissimo ed è storia aperta perché contiene anche alcune importanti registrazioni della nebulosa etichetta discografica India Navigation: il quintetto di Endangered Species (con Bluiett tra flauto e sassofono) porta in dote ancora oggi un’aria leggera, fascinosamente influenzata dal jungle sound degli AEOC, così come il successivo Birthright: A solo blues concert, fornisce uno spaccato eccezionale del suo stile, magnifico da ascoltare a tarda serata o al risveglio. L’interplay con molte stelle del jazz andrà alle stelle con gli album della Black Saint e Soul Note, periodo che procurò inizialmente grandi risultati con un album come Resolution (uno splendido quintetto composto con Don Pullen, Famoudou Moye, Fred Hopkins e William Hart) ma fu anche l’antitesi di una sorta di stabilizzazione della musica, funzionale ad un jazz più melodico e bluesy, nonostante il suo baritono continuasse a splendere. Per gli intrepidi dell’ascolto era più consono orientarsi sul live del 1977 all’Axis club di Soho (raccolto in Im/Possible to keep), piuttosto che soffermarsi sulle operazioni jazz di Dangerously suite ed Ebu.