Introduzione
Nell’area delle sfide e delle interposizioni di genere musicale, il contrabbasso può vantare una nuova storia: gli attuali orientamenti permettono di acclarare una certa effervescenza su quanto si produce nelle rinnovate visuali di compositori e musicisti, poiché è indubbio che non è ancora finito il tempo delle invenzioni nè tanto meno sia finito il ciclo delle espressioni realizzabili. Soprattutto dal lato compositivo c’è la volontà di recuperare tempo utile per ritrovare punti di contatto con quella sensitiva avanscoperta che il contrabbasso ha condiviso con i jazzisti e gli improvvisatori: oggi assistiamo ad un incremento considerevole del repertorio classico per il contrabbasso che formalizza molte delle scoperte degli improvvisatori, ne incrementa il peso specifico con le rivelazioni degli impianti compositivi, accresce il potere delle identificazioni sonore attraverso il ricorso all’elettronica (soprattutto live electronics) e attraverso le digitalizzazioni vissute in modalità pluridisciplinare (nelle congiunzioni con le altre arti). D’altro canto le nuove generazioni di improvvisatori sono ancora molto ossequiose dei loro mentori, fornendo l’idea che, nella maggior parte dei casi, sia ancora importante insistere sulla metodologia e sulla considerazione di un approccio improvvisativo che sia il riflesso di una condizione dell’esistenza e della creatività senza preconcetti.
Penso che una nuova era del contrabbasso sia già partita da tempo e penso che oggi stia raccogliendo tanti buoni frutti, con tanti musicisti in grado di influenzare ed arricchire idee e conoscenze. Prendendo spunto da alcune registrazioni pubblicate negli ultimi due anni, ho pensato che una sorta di simposio del contrabbasso fosse possibile: in particolare mi premeva rilevare l’importanza di alcuni autori ed esecutori, alcuni più sviscerati dalla stampa, altri troppo genericamente trattati, e scontarne il contenuto. E’ su questa lunghezza d’onda che ho trovato fosse indispensabile:
a) il lavoro di Dario Calderone, contrabbassista concentrato sulla fenomenologia di Tenney, la ritualistica di Netti e la novità del live electronics e del video a supporto (supportata dalla composizione di Baroni);
b) riproporre indomito i caratteri di un compositore eccezionale nel contrabbasso come Stefano Scodanibbio, alla luce degli sforzi interpretativi di Daniele Roccato, che ha sistemato discograficamente capolavori come Ottetto e Alisei in un cd recentissimo per la Ecm R.;
c) sviluppare l’enfasi teorica di Barry Guy, compositore ed improvvisatore che continua ad affascinare per via di alcune, particolarmente riuscite direzioni date al contrabbasso: compo-improv sistemata a diversi livelli, teatralità, scenografie in situ sono alcune delle strade aperte dal musicista inglese;
d) sviluppare la storicità, i caratteri essenziali ed una parte considerevole del percorso discografico di Barre Phillips (i suoi solo e la parte discografica all’Ecm), un top della cantabilità dello strumento;
e) soffermarmi sulle valenze tecniche ed ambientali di Mark Dresser, incontrato in Italia durante una vibrante escursione compiuta in alcuni posti topici della nostra penisola (lo spunto è Modicana, suo solo pubblicato lo scorso anno per la Nobusiness R.).
Per compiere questo faticoso lavoro di spunta e raccordo mi sono avvalso della collaborazione eccellente di esperti del settore, ossia di:
1) Daniel Barbiero, che si è occupato di Roccato e Scodanibbio,
2) Pierpaolo Martino, che per Percorsi Musicali ha scritto un rinnovato saggio sull’arte di Barry Guy, un resoconto completo delle sue propensioni teatrali e orchestrali;
3) Dario Calderone in persona, che con il suo prezioso aiuto mi ha consentito di accedere ad ulteriori informazioni e materiali.
Ringrazio calorosamente i miei interlocutori per la disponibilità che mi hanno dimostrato!!.
Bene, finiti i preamboli entriamo nella ragnatela dei racconti. Spero che il simposio sia di vostro gradimento.
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Dario Calderone tra James Tenney, Claudio F. Baroni e Giorgio Netti
Se tra i contrabbassisti è abbastanza facile trovare ecletticità, ossia rilevare una divisione del lavoro in cui si colpiscono tecniche e generi differenti come frutto del programma formativo compiuto, molto più raro è trovare quelli che hanno il talento e il coraggio di travalicare i concetti, riuscire a guadagnarsi la stima dei compositori più intransigenti, e portare la musica e le tecniche ad un più ampio livello di risultati e di comprensione. Dario Calderone fa parte di questa rarità: allievo tra i migliori di Scodanibbio, Calderone ha intrapreso un’ampia gamma di attività che si indirizza alla:
a) composizione contemporanea (l’omaggio al suo maestro, contenuto in “Voyage that never ends”, è una composizione che tra le sue mani è diventata una delle migliori versioni del pezzo);
b) all’improvvisazione e una sua rigorosa interpretazione (gli ultimi sviluppi del contrabbassista lo vedono dirigersi su una particolare configurazione di idee di un quintetto diretto da Roland Dahinden su un astratto, artistico contatto con Charlie Parker);
c) agli strumenti moderni dell’elettronica (loops, ritardi digitali, compresenza audio video).
Sebbene ognuno dei suoi progetti meriterebbe un’attenzione specifica per la serietà con cui viene delimitata la materia, in questa sede, tuttavia, mi soffermerò solo su alcuni di essi, specialmente per rimarcare le indagini che interessano il pensiero recente del contrabbassista. Quali? Da una parte Calderone ha chiamato in causa principi musicali e filosofici dimenticati da gran parte della composizione degli ultimi decenni: il riferimento è al cd “Bass Works” (per la HatHut R.), che il contrabbassista ha dedicato a James Tenney, compositore americano che scrisse alcuni pezzi memorabili per contrabbasso, in un periodo (tra i sessanta e gli ottanta) in cui l’interesse per le forme gestaltiche della musica sembrava aprire nuovi orizzonti. La grandezza di Tenney sta nel fatto che egli propose un paio di teorie imparentate con l’armonia e con la percezione della musica: mentre con la prima allargò il raggio di azione del pensiero di Cage, con la seconda creò un vero e proprio progetto nuovo per l’ascolto. Con una terminologia piuttosto succinta e semplicistica, si potrebbe dire che Tenney tendeva a ribaltare il consueto paradigma per cui per ottenere un risultato musicale fosse necessario partire da una forma e da un metodo di composizione; Tenney propose di costruire un approccio partendo dal risultato, ossia dalla percezione attenta ed inquadrata del clang (dei suoni o loro combinazioni), un passo decisivo per proporre quell’auspicabile salto di qualità dell’ascoltatore, tutto rivolto nel comporre una fenomenologia reale dell’ascolto. Una finalità del pensiero di Tenney era quella di compiere ulteriori ricerche intorno ad overtoni e micro tonalità, assorbendone le possibilità armoniche in un tessuto musicale che ne proponeva una versione non convenzionale.
In Bass Works Calderone riprende Beast, uno dei suoi più famosi pezzi per contrabbasso solo (all’epoca dedicato al compianto Buell Neidlinger), mette in sesto due versioni di (night), e con la collaborazione di Francesco Dillon (violoncello) e William Lane (viola) dà la sua premiere di Glissade, una splendida composizione che per motivi tecnici (la scordatura continua del contrabbasso) non veniva quasi mai eseguita. Con la cura giusta sul versante della registrazione, Calderone aumenta la potenza psicologica della musica di Tenney, facendo emergere con una facilità impressionante quel carico di rivelazioni che la musica dell’americano faceva intravedere: Beast si regge sulla Teoria di Fibonacci ricomposta su onde che seguono il variabile incedere di due frequenze dello strumento, tali da poter intercettare battimenti e consonanze impreviste. Sostiene un’idea molto battuta nei settanta del secolo scorso, ossia quella della ricorsività di patterns stabiliti in base a regole matematiche: i frattali, le serie e molte delle teorie delle numerazioni matematiche aprivano ad un nuovo mondo di relazioni musicali, dove i compositori (non senza uno spessore filosofico) filtravano l’aritmetica con una possibile meditazione sonica.
Le due versioni di (night) si sostanziano invece di un glissando diversamente interpretato nelle sue caratteristiche di suono: conscio della libertà concessa da Tenney, Calderone inventa una prima spettrale, flautata, con una microfonazione tesa a cogliere tutti i dettagli, soprattutto quei parziali che di fatto collocano Tenney nei proto-spettralisti; la seconda versione, invece, è un ciclo a descrescere, partendo da un caricamento del suono fino al suo smorzamento totale.
Per cio che concerne Glissade, invece, siamo di fronte ad una composizione a 5 movimenti, che distribuisce il magico incrocio delle microtonalità in un trio di strumenti ad alta concentrazione di overtoni: è un viaggio dove succedono molte cose, dove tutto è annotato, ma il suono restituisce decisamente un prodotto superiore, come se quelle indicazioni in partitura si fossero staccate dal foglio e allungate nell’aria. Coadiuvato da un sistema di ritardo analogico, questa prima registrazione della composizione è eccellente, perché emotivamente scuote gli imperi di una certo approccio agli strumenti: sentite cosa succede in Array (a’sysing) per rendervi conto del potere subliminale della musica, tre tiranti che velocemente vi trasportano in altra dimensione. In tutti e cinque i movimenti si aprono orizzonti magnetici, che pur non essendo figli del virtuosismo che abbiamo convenzionalmente imparato a riconoscere nelle forme occidentali, sono in grado di rappresentare a perfezione le harmonics perceptions di Tenney. Le sensazioni create da Calderone e dai suoi due partners fanno pensare a quella fitta ricerca che guidava gli avanguardisti americani nello sfidare le leggi del tempo: in loro c’era il riconoscimento di una musica che provocava cambiamenti sul piano della psicologia, dell’acustica e della fisica, sebbene teoricamente esse non avessero mai voglia di dare nuove informazioni su presunti mondi metafisici o spirituali guidati dai suoni.
John Cage è un riferimento subdolo che Calderone insinua in
Ursa Minoris, la composizione per contrabbasso, elettronica
real time e video proiezione, del compositore italo-argentino
Claudio F. Baroni: lavorando nella sfera celestiale dell’
Atlantis di Cage,
Ursa Minoris è anch’essa una sorta di trascrizione dei patterns stellari trasfusi in parametri musicali; vengono utilizzate diverse tecniche non convenzionali (ponte, spiccato, glissando, jete ricche, etc.), tuttavia è nuova la tecnica utilizzata per colpire la corda dello strumento nel primo movimento (una sorta di scolpitura metallica effettuata con la rana dell’arco); si lavora molto sui loops che, una volta creati, si immergono ripetutamente nel costrutto sonoro. L’effetto è molto meno destabilizzante di quanto si pensi (la sostanza metallica non porta esteticamente ed immediatamente alle stelle) e contribuisce al pensiero di corpi “in rilievo” nel firmamento, che si muovono intercettando musicalmente ciò che si potrebbe inseguire con la vista o il sentimento: almeno nel movimento che siamo in grado di ascoltare dal video
youtube, sembrano siano le scie le vere protagoniste. (vedi
qui le note di Calderone su tutto il pezzo).
Per il contrabbasso la posizione dell’elettronica non è indifferente: gli sviluppi della tecnologia hanno reso sempre più interessanti certe esplorazioni, soprattutto per via dei nuovi confini che si creano con la creazione musicale intesa nel senso comune; è già disponibile un ampio ventaglio di nuove composizioni che utilizzano a vario titolo il live electronics, i sensori di movimento applicabili all’esecutore, le modificazioni genetiche del timbro ottenute con laptop o altri supporti analogici, anche se non c’è ancora una personalità forte del contrabbasso che si sia preoccupato di ordinare e sistemare in una cellula di studi a sé stante, i molti contributi sull’argomento.
Nell’ultima edizione della Biennale di Venezia è stato riservato uno spazio considerevole al contrabbasso, spazio in cui è stato possibile rinvenire alcune delle tendenze della composizione in materia. Calderone ha eseguito
Ur (
qui il video dell’esibizione veneziana), una composizione scritta da Giorgio Netti, che ha richiesto un notevole lasso di tempo ed un necessario lavoro di affiatamento tra Netti e Calderone, ancor prima della sua realizzazione. Il motivo sta nell’eccezionale forza di gravità del pezzo, dove una partitura dettagliatissima nasconde la riflessione sul tema del rito e sulla doppia funzione che il contrabbasso ha svolto nella letteratura musicale, evidenziando la duplice movimentazione nella storia come basso continuo e pescatore di sonorità armoniche. Ciò che colpisce di Netti è la sua completa immersione nello strumento di lavoro: figlio di un’eredità che ha previsto un nuovo copione per estrarre musica (dicasi sistema estensorio), Netti ha raccolto, studiato ed approfondito molti dei percorsi fissati da quel tipo di composizione (vedi il lavoro unico svolto sugli armonici dei sassofoni o sulle amplificazioni non convenzionali della viola), ponendosi in tal modo come il più serio baluardo formativo delle tecniche estensive. La riorganizzazione è stata naturalmente convogliata verso gli strumenti analizzati e frutto di commissioni, estendendo la sua ricerca anche in quelle dimensioni che erano oggetto delle propensioni raggiunte dagli improvvisatori, i quali hanno temerariamente agganciato sviluppi personali non sistematici.
Se ascoltato in una situazione acustica eccellente (così come avviene nella cornice della Sala d’Armi del Sestiere Castello veneziano) il contrabbasso è in grado di far scattare delle sensazioni aurali speciali, di poter testimoniare la valenza di un tema e il desiderio del compositore di vederla finalizzata; allo scopo sono necessarie un paio di cose fondamentali, ossia la qualità di chi esegue, che deve comprendere totalmente la struttura e le finalità musicali del pezzo, ed un’amplificazione degna di poter vivere e competere alla pari con i suoni. Questo succede esattamente in Ur, dove l’esplorazione al contrabbasso solo avviene cercando anche di coinvolgere l’ascoltatore in una relazione di vicinanza fisica con il suono: sebbene la partitura non ne faccia menzione, nell’esecuzione veneziana Calderone spinge su una inedita spazializzazione dei suoni che insisterebbe sul concetto dimensionale della musica nell’ascolto frontale; l’animazione concreta del suono è anche animazione fattibile del tema, poiché non c’è dubbio che per poter giungere auralmente ai Minotauri, ai riti antichi, alle pulsazioni danzabili che presentano il conto di una lunga storia, c’è bisogno che l’amplificazione e la riesumazione dei dettagli sia perfettamente funzionale. E’ vero che molti amici contrabbassisti potrebbero rivendicare le loro scoperte e una fisiologica pletora di risultati vincenti, tuttavia è vero anche che Ur getta un àncora sui procedimenti, sulle capacità trasformiste dello strumento, qualcosa su cui il domani proclamerà il suo verdetto, nelle more di una continuità della pratica e della verifica delle formulazioni: non mi pare che ci siano in giro compositori competenti come Netti, che si impadroniscono della vita e della fisicità degli strumenti su cui lavorano, e soprattutto ci sono pochi esecutori compenetrati come Calderone, in grado di produrre l’equilibrio necessario per condividere le potenzialità della composizione. C’è una frase, incredibilmente centrata nel significato, che Netti ha usato per descrivere il rapporto con Calderone in sede di presentazione del pezzo, poco prima della sua esecuzione “…la scrittura è per me arrivare a costruire un’astronave, un’astronave perfetta per quanto sono capace di fare, ma la missione la compie lui…“.
Direi che, più che raccontare, Ur andrebbe immediatamente ascoltato, e a dir il vero io stesso ho cercato la stessa immedesimazione che Calderone ha dichiarato di intraprendere per entrare nel mondo di Netti; l’esperienza totale va frazionata nelle cinque parti stabilite (tre come U, due come r), poiché in ognuna di esse c’è un cambio di prospettiva; però fidandomi di una personale codifica, potrei essere tentato di classificare le cinque fasi in questo modo: iniziazione-procedimento-transizione-esortazione-terminazione.
I primi 17 minuti di Ur increspano il cervello con una pletora di armonici che fuoriescono dalla gestione della tensione dell’arco, un incontro tra modalità acute e gravi (Netti parla di labirinto di echi), qualcosa che sollecita circolarità di suoni ed una presenza che reclama una dignità cognitiva; ma è un terreno che acquista nuova caratterizzazione nei 10 minuti della seconda parte, dove ci si sposta su una maggiore intensità delle articolazioni e delle velocizzazioni armoniche, in una situazione in cui l’orecchio ha cominciato ad abituarsi/adattarsi alla situazione sonora e quindi può cominciare a rappresentare auralmente un’entità: stare “dentro” il suono, questo è l’obiettivo che si deve percorrere, e non si può fare a meno di restare favorevolmente impressionati dall’abbrivio variabile che si avverte in tutta la fase, soprattutto quando ad un certo punto la partitura prevede che le due mani si avvicinino nella zona inferiore di congiuntura della cordiera, provvedendo all’emissione di suoni eccezionalmente lucidi e plasmatici. La terza parte investe sulle sincopi che hanno probabilmente natura transitiva. Difatti, la prima parte di r, si consolida sul pizzicato e sul potere vibratorio delle corde, dove le tecniche e le velocità di esecuzione sono in grado di costruire un’implicita fase ritmica che sa tanto di danza esortativa; l’arco ricompare nella seconda parte di r, ma ha la funzione di assecondare il moto vibratorio portante e perciò richiede che l’arco non debba tirare ma stare tra il colpo percussivo e la leggera pressione sulla cordiera, elementi che Calderone porta a termine con naturalezza, limitando fisicamente il sensibile sforzo richiesto dalla successione ordinata delle operazioni, distribuito genericamente su tutta la lunghezza della composizione.