Con un pò di ritardo vi porgo qualche considerazione in merito a 6 nuove pubblicazioni discografiche della Setola di Maiale.
Exultation è il nuovo progetto del pianista Luca Pedeferri, che si deve considerare la seconda incursione del musicista jazz nella musica contemporanea. Infatti, dopo l’interessamento per la musica di Galina Ustvolskaya, Pedeferri si getta a capofitto nelle tematiche essenziali del grande Henry Cowell; Exultation prevede un programma di rifacimento di 10 pezzi celebri del compositore americano, che informano sulla sua esperienza pianistica: come molti sapranno, Cowell è stato ufficialmente uno dei primi compositori a costruire nuove figurazioni armoniche al pianoforte attraverso tecniche pianistiche che all’epoca si potevano solo intuire. L’influenza di Cowell sulla musica moderna è stratosferica, specie quando si pensa a quanto messo in pratica sullo strumento in un’ottica di attualizzazione della storia: prestare attenzione alle corde interne dello strumento, impostare un secondo avventore del piano in funzione di aiuto, elaborare armonie in mezzo a serie definite di clusters o come coda dell’utilizzo della tastiera, passaggi concentrati sulle risonanze dei registri bassi della tastiera, sono tutte manovre a lui verginalmente riferibili.
Come nel cd precedente dedicato alla Ustvolskaya, Pedeferri si circonda ancora di un ensemble di musicisti (il Contemporary Project comprende Fausto Tagliabue alla tromba e flicorno, Lionello Colombo al sax tenore, Marco Menaballi alla parte elettronica, Enrico Fagnoni al contrabbasso e Mauro Gnecchi alle percussioni) e sfodera un talento negli arrangiamenti che farebbe invidia a qualsiasi professionista del settore: si comprende come non solo Pedeferri abbia letteralmente ingoiato The piano music of H.C., ma anche come abbia previsto spazi di riadattamento che non coinvolgono solo il jazz, lasciando porte aperte anche per una libertà d’azione che non segue convenzioni. Da questo punto di vista, i dieci brani famosi di Cowell ricevono un trattamento che recepisce lo scheletro dell’impianto melodico e l’umore delle composizioni per piano di Cowell, ma si riprogetta con caratteristiche che non gli appartengono formalmente, dove gli strumenti aprono spazi di creatività non previsti dalle fasi pianistiche, si perviene a tagli e sostituzioni indotte da un diverso sentimento, ci si adopera per un tessuto essenzialmente jazzistico che comunque non scade mai in manierismi: per quelli che non conoscono Cowell, il mio consiglio è quello di incrociare ogni pezzo del suo Piano Music con quanto è stato riottenuto da Pedeferri, al fine di cogliere con più precisione le differenze a cui ho accennato, e comprendere il presunto trasbordo che Pedeferri vuole effettuare nella sua musica. Exultation non ha crepe, è impegnato e gradevole allo stesso tempo, e può essere una prima mappa da cui partire per prendere più coraggio su rapporti impensabili con la musica di Cowell, sfruttando le strutture compositive per intraprendere libere e spontanee improvvisazioni di musica non idiomatica.
Hellenic alley è il trio imbastito dal pianista Alberto Braida, il chitarrista Andrea Bolzoni e il batterista Daniele Frati. Registrato all’Accademia musicale F. Gaffurio di Lodi, Hellenic alley è il risultato di un incontro non occasionale tra tre musicisti che si impegnano a far confluire le proprie personalità artistiche in uno spazio appositamente creato per la confluenza stessa; in questo spazio si trova un’aria arsa, quasi non addomesticabile, che influisce sull’ethos e la disposizione degli elementi. Braida verticalizza continuamente, proponendo accordi dalla natura invasiva che tengono in vita non solo le aritmie complessive del trio, ma servono pure per posporre la dimensione in un ipotetico immaginario dei suoni; Bolzoni, invece, produce un vero e proprio telaio di note, quasi una corrente-flusso che comunque non accenna mai a protagonismo; Frati asseconda i paesaggi sonori creati, incidendo sulle velocità e sulle dinamiche gradualmente evolutive.
C’è da dire che, per chi è avvezzo alla musica improvvisata di Braida, si troverà un pò spiazzato in Hellenic alley, poiché sembra più un elaborato di pensiero di Bolzoni (4 dei 7 brani sono scritti da lui), ma ciò che conta alla fine è il risultato, che ha una sua precisa configurazione, come detto; sono configurazioni non in grado di essere descritte in un’area delimitata, in quanto non è apprensiva al jazz, al suo riconoscimento o alle sue diramazioni e non riesce nemmeno a definirsi in un processo d’improvvisazione di quelli classici; si parte da qualcosa che ha la parvenza di uno scorrimento fusion jazz (i primi tre brani del cd potrebbero implicare tali elementi), per poi arrivare ad uno stampino zappiano (Blurry) o a prevalenze melodiche (Faces ed Estasi d’estate).
Hellenic alley fa saltare agli occhi la qualità dei musicisti che vi partecipano: su queste pagine ho già avuto modo di apprezzare Bolzoni e parzialmente Braida (di cui urge un’indispensabile rivalutazione) e i vicoli ellenici insinuati dai tre musicisti hanno probabilmente un aggancio alla filosofia aperta o purgatrice di Aristotele, quando affermava che la catarsi nell’arte (e dunque anche quella vissuta nella musica) è un mezzo per liberarsi delle proprie passioni e metterle a disposizione degli spettatori.
Nel loro nuovo lavoro, il duo Luca Perciballi-Ivan Valentini (chitarre, sassofoni, live electronics) ci informa su alcune similitudini che l’improvvisazione può suscitare quando si imposta la condizione esecutiva sulla teoria della Black Box Theory: utilizzata nelle scienze ingegneristiche e computazionali la teoria risalta la “scatola nera”, un corpo di nozioni o procedimenti non conosciuto dagli utenti, che sono in grado solo di far funzionare gli input di partenza e riconoscere l’output finale. La riproduzione musicale della scatola nera è una sorta di oggetto sconosciuto, ma che nella mentalità di Perciballi e Valentini è terra di proprietà, poiché tutte le relazioni in essa contenute sono solo alla portata di coloro che le hanno create e riescono conseguemente a ben interpretarle. Luca mi parlava da tempo di un progetto con Valentini e mi sembra che questa collaborazione abbia più canali di apprezzamento, perché con The black box theory non si può essere solo essere ascoltatori passivi, ma è necessario seguire quanto i due musicisti hanno voluto conseguire, scavando nella mole di relazioni musicali all’interno di quella scatola: intonazioni, formanti, overtoni, ritmo, armonia, accordi, sono gli elementi sui quali si impone quella forzata conoscenza che è necessaria alla produzione dei suoni. Il merito di Perciballi e Valentini è quello di esplicitare le tecniche e di realizzare un costrutto sonoro interessante, bazzicando nel proprio stile.
L’iniziale Tuning è già grande musica, quanto di più interessante possa emergere da una revisione “pensata” di una semplice fase di accomunamento accordale degli strumenti, con il sax tenore che, con le sue evoluzioni, rincorre una nota della chitarra elettrica che gira attorno al suo livello di intonazione (entrambi producendo bellissime microtonalità da incrocio); gli esperimenti sulla microtonalità continuano in Singing in overtones, simulazione bucolica sugli strumenti, aiutata nel suo intento estetico da estensioni specifiche del live electronics; in Formant from membrane si accolgono le ampie risonanze di corde, oggetti ed elettronica comparata con risultati degni di un percussionista navigato su questi abbinamenti timbrici; in Short movements in anechoic chamber una segmentazione di suoni non convenzionali dirotta il dialogo sax-chitarra verso una sorta di dadaismo del metodo e della persuasione sonora; in About perception of rhythm and harmony i due musicisti danno una lezione su come riconfigurare i parametri classici in un ambiente dilatato, dove far entrare scampoli di Ayler o Sharrock; riverbero e fraseggio in Building chords in sympathy suonano come indagini di instant composition, mentre i due Earing Test si rapportano alla subdola constatazione delle capacità uditorie, fornendone una del tutto musicale, viaggiando su frequenze che non sono solo specchi di cerebralità.
The black box theory è una dimostrazione (resa in musica) della complessità dei pensieri, relazioni o atteggiamenti che interessano la nostra mente in quella non definita fase che corrisponde agli stimoli interni, a quella invisibile rete che costituisce la preparazione musicale e il suo modo di esplicarsi, quella crittografia del far musica che è quasi scientifica, ma ha tanti aspetti per farsi apprezzare anche dal punto di vista estetico ed emotivo.
Il ritorno del Neu Musik Duett (Guido Mazzon e Marta Sacchi) regge usualmente le sponde della musica e della poesia: chi è attento alle prospettive essenziali dei social network, potrà avvertire delle vere scosse emotive di fronte a quanto Mazzon posta sul suo profilo facebook; Guido pubblica foto di percorsi naturalistici fenomenali, spesso invocando posti e licenze poetiche che sono fotografie di un approccio sano e cosciente alla vita. The land of blue lichens non fa eccezione a questa regola e proietta la musica al nostro ascolto come si potrebbe proiettare un corpo vegetativo: l’afflato davisiano di una tromba, regolata acusticamente sugli umori a seconda delle circostanze, viene costantemente affiancato da elementi per così dire organici, risaltati dall’uso degli strumenti e delle parti elettroniche. Talvolta si tratta di contemplazioni (come l’omonimo brano che dà il titolo al cd), altre volte si raggiungono postazioni più accidentali (Ab imis rebus e Verso gli spazi della musica hanno dalla loro parte la capacità commutatoria dei flauti e clarinetti), oppure spazi onirici (Out of line, Ulisse’s flight) o nostalgici (Blue key). In tutto The land of blue lichens c’è un’aria ispirata, che presenta una realtà profonda e purtroppo scomoda: i licheni vestiti di solitudine potrebbero essere visti come destinatari delle cattive tolleranze del mondo e se si fa qualche ricerca specifica si può anche scoprire che nell’antichità venivano usati come cibo d’emergenza. Straordinario è il messaggio in cui si afferma che: “…la libertà, la libertà è nel sogno. Tutto il resto è plastica…”.
Nella libera improvvisazione il connubio violino contro sassofono è ambiente rarissimo. Ho fatto una breve ricerca in materia, accorgendomi che gli episodi dovrebbero stringersi intorno a 4-5 pubblicazioni discografiche; Billy Bang con Charles Tyler aveva creato una predestinazione nel Live at Green Space del 1981, ma bisogna arrivare più in là, al 1995, per trovare violinisti e sassofonisti specializzati ed applicati alle opposte sponde continentali, interessati alla collaborazione dialogica: si trattava di Carlos Zingaro in compagnia di Daunik Lazro in Hauts plateaux, un concerto effettuato nel 1995 al Cité de la Musique di Marsiglia e di Mark Feldman con Wofgang Puschnig in Spaces pubblicato nel ’98; Zingaro ha ripetuto l’esperienza in duo assieme a Joe Giardullo in Falling water nel 2003, in uno splendido lavoro che beneficiava dell’acustica del luogo di registrazione, nonché lo scorso anno con Albert Cirera in Cròniques 4. Questo lungo preambolo mi serve per introdurre una nuova aggiunta, ossia la registrazione del violinista Matthias Boss con il sassofonista Guy-Frank Pellerin, che li ritrae in un concerto a Castiglioncello nell’inverno del 2017: Du vent dans les cordes pone l’accento su questa inedita costruzione della musica improvvisata che lascia una grande libertà di movimento negli svolgimenti ma che comporta anche grandi rischi per via del fatto che la musica può girare intorno a tonalità stridule e fastidiose; il segreto per evitare di rendere asettica la prestazione è quella di sostenere le sonorità con fantasia e competenza e cercare di trovare dei luoghi assolutamente non comuni dell’ascolto. La guida per Du vent dans les cordes è scoprire cosa c’è sotto gli impasti: muoversi sulla microtonalità in combinazione (Steppe) per svelare un’anima del sentimento, ampliare lo spettro percussivo degli strumenti (Construire un feu) per rappresentare una materialità istintiva, stendere note con l’ausilio delle estensioni (Short letter for the water) per confessare pensieri complessi. Per chi cerca preziosi, quelli che coniugano l’avventura sonora con la mente indagatrice, troverà qui ampia soddisfazione in due musicisti realmente speciali.
Le Bon Ton è la trasposizione discografica del concerto che Eugenio Sanna e Tristan Honsinger hanno tenuto al festival di Angelica nel 2005. L’esibizione è musicale ma con un’incursione profonda nella recitazione che andrebbe naturalmente visualizzata, tuttavia già l’ascolto restituisce le coordinate sulle quali si muove tutta l’esibizione. Sanna è unico nelle sue iniziative e si è molto speso per rendere più effervescenti certi campi di azione dell’improvvisazione: in Le Bon Ton si intuisce quanto sia importante avvicinare l’improvvisazione a quel laboratorio teatrale che è stato variamente configurato dalla storia e riservargli nuovi spazi. L’atmosfera è speciale, con i due musicisti-recitanti che si scambiano battute mentre trovano allo stesso tempo un’intesa sonora, in ciò che si presenta come un regno della cacofonia, dei palchetti trasversali e dell’intelligente ilarità: Honsinger e Sanna mettono a dura prova le corde dei loro strumenti (Sanna usa anche palloncini, lamiere e demolisce il timbro della chitarra con l’amplificazione), ma la destabilizzazione lascia alla fine un ottimo ricordo, che rende benvenuta la registrazione.