Quando si parla di sviluppo di un settore musicale si cerca di prendere in esame quanto fatto da compositori e musicisti prima dell’intervento creativo. In materia di vocalità la storia non è certo avara di consequenzialità, ma resta ancora piuttosto defilato l’interesse sulla vocalità moderna, soprattutto quella di stampo improvvisativo. Ganglia, il nuovo cd dei VocColours assieme al pianista Andrei Razin, costituisce un esempio lampante di come lavorare a pieno regime su condensazioni umorali della vocalità a cui bisogna dare un seguito: lavoro epidermicamente organizzato per svilupparsi dalle parti del free jazz, Ganglia è un turbine emotivo che scuote quattro voci e un pianoforte, per articolare una terra della meraviglie immediatamente percebile all’ascolto. Artisticamente si presta attenzione alla frammentazione, ad una serie di tecniche estese producibili dalla voce e alla possibilità di formare “unici” armonici che non hanno una regola spiegabile nè in cielo nè in terra. La particolarità dei VocColours sta nel fatto che musicalmente essi sono riusciti a creare un ponte tra la sperimentazione vocale di Jaap Blonk, quelle della musica classica post 1950, quelle delle falsificazioni vocali di McFerrin e dell’attitudine armonica delle grandi formazioni vocali con un gancio nel jazz (Trio Lambert-Hendricks-Ross e poi Manhattan Transfer).
Ganglia è grandissimo già dalla cover, una riproduzione di Niepokoj (in italiano Ansia), il dipinto della giovane artista polacca Marta Kawecka, una pittrice particolarmente interessata alla rappresentazione di “confini” tra arti diverse: il raccordo dell’irrequietezza espressa dal dipinto si sposa con quella sorta di fungo catalizzatore del sistema nervoso umano che vuole indicare una stazione del rivolgimento, luogo in cui si forma un nucleo di elementi in grado di poter sorreggere nuove impostazioni. Perché non poter replicare nella musica quanto succede nella scienza o nelle arti visive? Norbert Zajac, Brigitte Kupper, Gala Hummel e Iouri Grankin cercano di rispondere con efficacia a questa domanda, sapendo di avere in mano le armi giuste per provocare i controcircuiti dell’emotività vera. E riguardo a quest’ultima, Ganglia presenta ampia rendicontazione: nell’iniziale Blue, Grankin incarna una specie di risveglio di Polifemo, che si incrocia con quattro accordi di piano gettati nel nulla ed un talking che rimembra l’Al Jaurreau di We got by; dal tremolo si passa allo stile recitante alla Van Schouwburg in Poltergeist, pezzo in cui un jazz di superficie incontra un contrappunto speciale, con linguaggi singoli ed incomprensibili che vanno e vengono, simulazioni vocali (dai bassi alla McFerrin alle voci operistiche) che comunque si ricompongono in una nozione di poltergeist in cui va colto quel significato di traiettoria non comune; così come di Brownian motion va colto l’andamento casuale, dove le improvvisazioni non hanno direzioni, ma accennano ad uno spettacolare incesto sperimentale (arresti, intonazione frammentata, agitazioni, etc.); una risata forzata apre A bing, sviluppo incoerente di una club song, lavorata su note senza tono, che si adeguano più o meno velocemente alle apprensioni della parte pianistica, mentre On t’entend si apre con un’incredibile perfomance vocale della Kupper, che si sostanzia di una pletora di castrazioni vocali, in un dialogo con Razin ed ulteriori agganci alle sonate di Schwitters; un piano libero introduce e sostiene A faint chill, una surreale song che vive di melodie elicoidali, dove i quattro si riuniscono ma aumentando il caos nella seconda parte, dinamica seguita anche in Requiem7, con le vocalità portate all’estremo; Ganglia è invece atomi vocali e musicali in libero movimento, fatta di scat velocissimi, simulazioni e non sense che si intrecciano in un volteggio senza respiro; la finale Golden fog sembra poi un pezzo 4AD, portato nell’area dell’improvvisazione vocale, tali sono i fantasmi armonici che si erigono nello spazio acustico.
Avete capito che Ganglia sarebbe finito di diritto nel mio best 2018 se lo avessi ascoltato in tempo!