Joseph Jarman

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Chi ha letto Power stronger than itself, il libro di George Lewis che inquadra le vicende della formazione dell’Association Advancement of Creative Musicians (AACM), dei gruppi musicali sperimentali e dei prodromi dell’Art Ensemble of Chicago, si renderà conto di come la figura di Joseph Jarman fosse tanto importante: non è solo storia ciò che si vuole sottolineare, ma un movimento di umanità, di tecniche e di convalidazione di una proposta sociale.
Jarman ha costituito una profonda virata per il jazz, è stato un rappresentante senza compromessi di una nuova consapevolezza della musica afroamericana, che si accorgeva di poter contare su un allargamento delle fonti di elaborazione della creatività. Stimolato dalle libertà di Cage, dall’apertura dei musicisti alle nuove tecniche di estensione e dal clima fortemente indirizzato alla spiritualità che percorreva gran parte della filiera dei jazzisti americani, Jarman propose una sua versione di jazz nell’epoca in cui i sassofonisti e i loro assoli erano la merce più privilegiata del jazz. Come Dolphy e tanti illustri colleghi, Jarman era un polistrumentista ai fiati di gran livello, che passava con facilità e bravura da sassofoni alti o soprano a flauti tradizionali o dolci, con una differenziazione basata soprattutto sulla tipologia di contesto in cui portarli; non è un caso che Song for, il suo primo album del 1966 per Delmark R., venga ancora oggi citato oggi tra le fonti formative del suono della Chicago creativa di quell’epoca: si trattava di mettere assieme il free jazz, lo stile, brandelli di cultura del Novecento (dal dadaismo alla poesia informale), di riordinare le avventure musicali di Sun Ra e generare anche un’atmosfera da darsena di bambù; nel successivo As if it were the seasons del ’68, campane, gongs e percussioni ancestrali facevano parte del bagaglio espressivo con un’importanza pari a quella dei sassofoni o flauti usati. La musica creata da Jarman portava diritto in un paesaggio surreale, con recitazione, con molti scenari senza struttura, ed una sorta di ricerca della verità, tra oasi e durezza, impostata come filo diretto e confidenziale tra l’uomo spogliato delle sue costruzioni e un protettore invisibile funzionante dall’aldilà. Jarman trasferì queste sue competenze nell’Art Ensemble of Chicago, mettendole al fianco degli umori urbani di Mitchell e al moto trasformista e percussivo di Malachi e Moya, e nei primi anni settanta cominciò ad iniettare anche elementi dell’avvicinamento al buddismo, la sua nuova religione.
Quanto al Jarman musicista, c’è la possibilità di poterne apprezzare il valore (e le modalità di svolgimento di pensiero) almeno in due ottime registrazioni: una è Together alone, album sperimentale del ’71 registrato assieme a Braxton, mentre l’altra è Sunbound del ’76, unico album ufficiale suonato e registrato in solitudine. Queste registrazioni precedono un trittico di incisioni di rilievo pubblicate a fine settanta (Egwu-Anwo, Black Paladins e Earth passage-Density), dove Jarman si porta sempre con sé la ricchezza emotiva delle percussioni di Don Moye. Da quel momento, togliendo l’attività con l’Art Ensemble, le pubblicazioni di Jarman si conteranno al lumicino e, per quanto ne penso io, diventeranno meno interessanti, poiché si spande a macchia d’olio l’impronta del jazzista normalizzato.
Riflettendo su quanto fatto da Jarman nella musica, non posso fare a meno di pensare che nel corso degli anni la formula del musicista americano ha goduto di una sorta di protezione implicita: qualsiasi rinnovamento, condotto nei solchi del musicista di Pine Bluff, non è mai stato in grado di scalfire l’importanza, la perdurante attualità e livello delle idee musicali di Jarman pre-Inheritance. Le tante emulazioni non sono riuscite nell’intento di creare nuove apologie degli umori dell’americano, a differenza di quelle profuse per Mitchell, che hanno avuto riscontro ed ampliamento in molti splendidi adepti: la realtà è che la musica di Jarman, per come è realizzata, resta un mito nella sua interezza perché denota una speciale linea culturale, di arte dell’identificazione con musica, poesia, politica, spirito e socialità, un patchwork tremendamente affascinante che contribuì a formare anche leggende involontarie: musicisti come Christopher Gaddy e Charles Clark furono i premorienti precoci del movimento, ricordi svaniti del jazz con cui Jarman si trovò in piena connessione nei primi anni della sua vita artistica e la cui scomparsa fu probabilmente la causa della sua integrazione con l’AEOC. Jarman e gli artisti appena ricordati accedevano ai benefici di una “universal mind force” con un’incredibile e sproporzionata umiltà dalla loro parte.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.