Alexander Hawkins: Iron into wind

0
744
Source Own work Author Tore Sætre, Creative Commons Attribution ShareAlike 4.0. No change was made
Ho fatto parte dei fortunati ascoltatori di un concerto del quintetto di Roberto Ottaviano. Tra le tante cose che mi colpirono quella sera, una fu quella di vedere suonare Alexander Hawkins, uno splendido pianista inglese. Mi colpì l’approccio alla tastiera, la leggerezza e la straordinaria motilità con cui le mani scalavano il pianoforte. Quella sera mi avvicinai e gli feci i complimenti, ma mi ripromisi di approfondire in privato la sua musica. L’occasione è arrivata subito, e con lei, una conferma di quanto avevo pensato in quel concerto: Hawkins ha appena pubblicato il suo secondo solo piano per la Intakt Records, dal titolo Iron into wind, un cd che immediatamente coinvolge per i plurimi aspetti della sua formazione; in primis c’è il luogo della composizione, che Hawkins ha scelto per questo lavoro, e che corrisponde quasi totalmente ai giorni passati nella residenza di Civitella Ranieri, ad Umbertide in Umbria, dove si raccolgono per circa un mese tutte le migliori forze della scrittura, delle arti visuali e della musica; secondo, c’è un riferimento culturale ed umano dietro Iron into wind, poiché questa strana trasformazione di cui si parla è in realtà una metafora indicativa della vita artistica dello scultore spagnolo Eduardo Chillida e della sua Peine del viento. Chillida fu un costruttivista che utilizzò molto il ferro per le sue opere, ma la particolarità dello scultore risiede nel fatto che esse sono state fondate in spazi aperti e ventosi, a ridosso del mare, in montagna, nei posti ventosi di città e musei, nelle adiacenze di piazze e giardini, sempre alla ricerca di una sfida, quella di raccogliere la testimonianza della vita, del poter respirare e comprendere la profondità dell’aria e i suoi segreti.
Nella musica di Hawkins c’è un progetto di costruzione musicale ben preciso, dove è importante la movimentazione del tema e l’ariosità delle soluzioni, e non di meno, l’elaborazione di un particolare contrappunto. Come nelle migliori prerogative di un pianista classico, Hawkins tende ad usare elementi per formare una propria espressione: in Congregational si avverte l’ispessimento della melodia, una sorta di moto vibratorio innescato da una studiata ricerca delle possibilità della mano sinistra e la produzione di semi-clusters in itinere; Tough like imagination si muove su una linea di note veloce, dolce e incantata, con un incartamento nella seconda parte, dovuto al picchettamento effettuato su alcune note del piano, adeguatamente spettralizzate dai pedali; in Pleasent Constellation le armonizzazioni portano in territori obbliqui e il pezzo finisce con delle schegge armoniche estemporanee che sono eco del vibrato sonoro prodotto nella parte centrale; Gossamer like a ghost tree è un gioco di specchi, volteggi situati nei registri alti, mentre It should be a song, prima ti fa pensare ad un paesaggio caduco, poi si libra in accordi scalari veloci che lavorano su qualche tipo di subliminalità; echi delle ruminazioni di Cecil Taylor si avvertono nel finale così come in Hard as threads, velocità coniugata con clusters addomesticati, o in We all bleed, che cerca di espandere sistematicamente le dinamiche astratte ma in grado di rivelarsi anche incredibilmente interrogative; in Tumble mono la linea melodica sul registro alto sembra un pallina che rimbalza, classicità e armonizzazioni robuste, ampliate dai pedali; Etude è un campo aperto su nuovi sviluppi, perchè si lascia andare ad una intersezione di quanto fatto con un minimo di problematica minimalista.
Hawkins dice di essere stato influenzato da Janacek e Waldron: del primo un confronto plausibile può trovarsi nei 10 movimenti del Book I di An Overgrown path; in quel ciclo pianistico era proprio la forza dei motivi popolari che reggeva le sospensioni armoniche e soprattutto costituiva differenziazione rispetto a quanto fatto dai romantici qualche decennio prima; senza di quelle probabilmente non si sarebbe potuto distinguere a sufficienza tra lui e Schumann o Brahms. Hawkins si impossessa, perciò, di quella forza melodica leggermente dilatata, capace di cristalizzare attimi. Quanto a Waldron, l’influenza sta nel saper riprodurre quelle “macchie” armoniche, che spesso formano il contenuto del suo contrappunto. Una terza, chiara influenza è quella delle corse sulla tastiera di Cecil Taylor.
Bene, ora mettete assieme la sostanza di questi appunti che vi ho descritto e coordinatevi con le sculture di Chillida: tutto acquista un senso, ha un suo modo di porsi; c’è la voglia di ripristinare una linea di condotta in questa musica, quasi un rigore morale, con una probabilità alta di abbinare istinti artistici e mistici. Tra i pianisti inglesi recenti Hawkins è senza dubbio il più interessante prodotto inglese che arriva da molti anni a questa parte e nel coacervo stilistico non è accostabile a nessuno dei pianisti in circolazione più accreditati in questo momento (Risser, Draksler, Davis, Taborn, Mitchell, etc.).
C’è da chiedersi quanto moderno sia il tentativo di Hawkins, quando il patto è di voler guardare sempre il futuro in un certo modo: per Hawkins sarebbe meglio pensare ad una modernità funzionale, quella del pittore che sta dentro i suoi dipinti e non li scruta come in una fotografia impressionista; in questo non è diverso da un qualsiasi astrattista o un costruttivista come Chillida. La musica sa reggere a qualunque intemperie quando è ben costruita, personale ed esige l’universo. Iron into wind è perciò l’esperienza sensitiva di un pianista che ha calcolato benissimo le dosi delle qualità della vita e le ha riportate perfettamente in un circolo che spetta solo a noi ripristinare. Nella sua musica c’è molto di quanto Liszt diceva a proposito del virtuoso e dell’interpretazione: “….he must send the form he has created soaring into trasparent ether; he must arm it with a thousand winged weapons; he must call up scent and blossom, and breathe the breath of life….“.
Articolo precedenteRamon Lazkano: Piano Works
Articolo successivoSuoni della contemporaneità italiana: il quartetto d’archi + elettronica
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.