Storie di riorganizzazione dell’underground egiziano

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Se si consultano le riviste specializzate sulla scena musicale del Cairo, si potrà notare come si stia sviluppando da tempo un filone di artisti specializzati nell’elettronica dalle caratteristiche differenti: come già affermato in altri miei articoli, da una parte c’è una gioventù che ha scelto di immedesimarsi con le ambiguità dell’elettronica occidentale, dall’altra ci sono musicisti che invece puntano ad un rinnovamento sostenibile dal punto di vista dell’identità e dei progetti sonori. Riguardo a questi ultimi, un paio di esempi recenti offrono rinnovata credibilità e potrebbero essere le congrue risposte a ciò che si è ascoltato in Egitto nell’arco di un secolo, dominato dal canto di Umm Kulthum e da molta inconsistenza di generi tradizionali, con l’elettronica che può garantire un’innovazione: si tratta di Nadah El Shazly, che nel 2017 ha pubblicato un ottimo lavoro dal titolo Ahwar e di Dina El Wadidi, il cui Slumber è arrivato solo due mesi fa in Egitto dopo un rodaggio di oltre un anno in Europa.
Qualcuno può chiedersi da dove le due artiste provengono musicalmente. Sebbene la nascente generazione di musicisti egiziani sia nata con un piede in casa e l’altro su internet, non si può dimenticare come l’Egitto partorì uno dei pionieri della musica elettronica, ancora prima che arrivassero i concretisti e i compositori sperimentali: Halim El-Dabh, nel lontano 1944, componeva The expression of Zaar, meno di due minuti di manipolazioni ottenute grazie ad un registratore a filo; El-Dabh lo portò ad un cerimoniale zaar, quelli che scacciano i demoni o i spiriti malvagi, salvò le elucubrazioni vocali e in studio poi tentò di ottenere un prodotto musicale; ma c’è anche un fautore moderno dell’elettronica partorita in Egitto, ossia Ahmed Basiouny, un insegnante di educazione artistica dell’Helvan University rimasto ucciso dai disordini della protesta a Cairo nel 2011: Basiouny era un sound artist, sviluppava concetti a mò di un Derrida senza avere una preparazione filosofica, convinto della necessità di processi di decostruzione e ricostruzione della musica che non fossero scevri del fattore tradizionale.
L’Ahwar della  e lo Slumber della El Wadidi, così come molti allievi di Basiouny, colgono proprio questo principio: pur essendo stati costruiti con una mano produttiva occidentale, entrambe non si spogliano affatto delle caratteristiche tradizionali della musica del proprio paese. Mentre El Shazly ha utilizzato una sorta di orchestra navigante, dove lo splendido e dimesso canto (un confronto con Annette Peacock non è errato) si confronta con arrangiamenti preziosi tra archi, corde e sassofoni, una sagace interposizione ritmica e produttiva e la voglia di riaprirsi alla complessità della canzone popolare araba di Sayyid Darwish, la El Wadidi ha addirittura rispolverato i campi di registrazione e l’ambiente delle stazioni ferroviarie, consegnando alla manipolazione in studio il compito di costruire le strutture (anche vocali), e dosare gli equilibri di un musica che è quasi totalmente ricavata dai rumori del treno e dello scenario vitale che lo circonda (sebbene siamo in una situazione totalmente differente dal punto di vista dell’idea compositiva, un ricordo elementare non può non andare a quanto fatto da John Cage a Bologna nell’happening del ’78).
Mentre la musica di El Shazly è molto atonale, concepisce una sottile protesta ed è paranoica, quella della El Wadidi è più melodica, disposta più naturalmente all’enfasi ipnagogica e alla malinconia migratoria; in entrambi i casi le idee ispirative non sono nuove, perché orchestre, strutture del canto e treni sono stati già mappati nel passato, ciò che conforta ed affascina però è il contorno delle pratiche musicali, qualcosa che rende felice i professori di storia o di antropologia, abituati a vedere di buon occhio l’aggiornamento delle tradizioni. Sono operazioni che lavorano sui suoni e lo fanno benissimo senza scomodare nessun iter concettuale; rientrando in una categoria speciale di artisti delle nuove generazioni, queste due donne hanno un concetto parecchio avanzato dell’essere appartenenti ad uno specifico clima culturale, dal momento che in esse si compie un crossover musicale e ideologico con l’Occidente, che scambia rispetto da entrambe le parti: probabilmente sono l’espressione dal volto gentile di un disfacimento ideologico che nessuna delle due parti vuole acclarare con chiarezza. Il problema è solo uno e riguarda la disponibilità futura degli ascoltatori: così come si lamentava Cage dell’impossibilità di replicare il suo happening sui treni, sui binari di tante altre città per la mancanza di un interesse diffuso, così la musica delle due egiziane avrà bisogno di carburazioni e riscontri sufficientemente ampi per non tornare nello stadio tradizionale della canzone popolare.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.