Tutti siamo a conoscenza di quanto sia stato fatto per la vocalità fin dai tempi di Hildegard Von Bingen: il primo tipo di composizione disponibile (vero e proprio atto di nascita ufficiale della composizione) fu in sovranità del canto; il canto ha poi dominato secoli di storia, accompagnando lo sviluppo scientifico, facendoci percepire un’equivalenza: l’esatta corrispondenza in musica delle nostre cattedrali e delle principali opere medievali e rinascimentali sono state le armonizzazioni che la composizione al canto ha saputo cercare e produrre. Stringendo l’analisi ai tempi moderni, il canto è stato scansionato come una foto e studiato assieme alla parola, il gesto o altre componenti collegabili alla persona: Berio era attentissimo alla fonetica, alle qualità delle onomatopeiche, e agli avvicinamenti della voce ai suoni degli strumenti, arrivando a destrutturare con la nascente elettronica le caratteristiche del canto, un’opera di filtrazione di baritoni e tenori. La sua attenzione è stata presa in carico da tanti altri compositori, tutti interessati ad un approfondimento, con lezioni entrate in tutti i sub-settori dei generi musicali, canto come apprezzata materia di studio anche in luoghi non consacrati alla musica; senza poi dimenticare i notevoli incrementi di interesse verso tipologie di vocalità non strettamente occidentali, elaborate dai sessanta in poi, e l’attrattiva dovuta al sorgere di una disciplina del canto improvvisativo.
Ma esiste ancora una possibilità di comporre per il canto, in un momento in cui si contano numerose le sue manifestazioni? Si può lavorare esclusivamente sulla voce per tirar fuori ancora nuove emozioni o stilizzazioni? L’esperienza di questi ultimi anni provvede ancora positivamente a questa domanda, specie quando si pensa a certi sviluppi accademici (Ablinger, Barden, Walshe), tuttavia proiezioni molto interessanti continuano ad arrivare anche da ambiti solo formalmente più popolari.
Prendete la scrittrice e cantante inglese Hannah Silva, che ha recentemente prodotto un cd dal titolo Talk in a bit, un lavoro strabiliante sui limiti fisici del linguaggio, che però miscela incredibilmente il lato sperimentale con quello emotivo: subissata da recensioni positive in tutto il mondo, la Silva inquadra la sua poesia in strutture vocali ritmiche di vario genere, perfettamente abbinate a quelle di suoni percussivi ed elettronici, accompagnatori o distraenti, derivati da synths o beats reali (Luca Xelius Martegani e Julian Sartorius). Come argomentato da Ian McMillan, giornalista di The Verb BBC Radio 3, c’è probabilmente un riflesso antico sotto le operazioni vocali della Silva “…uses techniques like cut-up and collage, sound poetry and physical theatre to create something that’s unique but nods to older forms like shamanism, pre-religious ceremonies, Dadaism, and the kind of games that children play with language….“
Poesie travestite da canzoni con il piglio fragrante dei tempi attuali: Blank è gradevolissima nonostante le difficoltà tecniche, così come Prosthetics fa pensare ad una Laurie Anderson intellettualizzata e completamente addolcita; ciò che è affascinante nella ricerca di Silva è il raggiungimento immediato di uno “stato”: la pressione sul linguaggio e sul suo trattamento agisce come un fulmineo aggancio alle situazioni descritte, che le rende istantaneamente vivibili. L’introduzione di Puffer Jacket & Sushi, con la Silva che articola un discorso ridimensionata in una “scatola” produttiva (ciò che appare acusticamente come una conversazione telefonica), sembra replicare le situazioni musicali del Rain Dogs di Waits, ma lo sviluppo è totalmente avulso dai racconti dell’americano, lo lascia decisamente indietro sul piano emotivo.
Decisamente accattivante è anche il secondo cd di MevsMyself, pseudonimo dello sperimentatore vocale Giorgio Pinardi, dal titolo Mitclàn: qui la volontà è quella di concepire il canto e la parola in strutture fonetiche bonificate, basate su trattamenti compiuti su convenzioni sonore di parti del globo. Il sistema scelto è quello di un improvvisatore che si impegna a costruire ponti e commistioni sia dal punto di vista linguistico che geografico, man mano che si formano buone sensazioni. Pur essendo un seguace del canto armonico, Pinardi dimostra di avere una larga conoscenza di tutto ciò che il canto ha partorito fino ad oggi, influenze variegate che si riflettono nella condizione d’ascolto, ma con una postilla non secondaria da prendere in considerazione, ossia riuscire a fare con la musica un salto ideologico, qualcosa che non sarebbe pienamente possibile nella realtà. Gli innesti tra clichés sonori dimostrano un coraggio superiore al primo Yggdrasill, per via del trattamento utilizzato e una maggiore difficoltà di cifratura (soprattutto per un ascoltatore con esperienze d’ascolto non elevate), e paventa momenti armonici e musicali tutt’altro che inseriti nell’ordinaria tonalità, direi sindromi di laboratorio che sono però il prezzo pagato per trovare un equilibrio nuovo tra melodie, armonie e ritmiche totalmente differenziate; ogni brano di Mitclàn è sperimentale e al tempo stesso alla portata di chiunque, è una dimensione che viene gradualmente colta e soggetta ad un meticoloso assemblamento ed arrangiamento in studio (evidenzio la collaborazione di Paolo Novelli e un assorbimento comunque modesto della tecnologia elettronica). Sebbene Mitclàn voglia riferirsi ad un aspetto lugubre della cultura Azteca, in esso c’è molta più vita di quanto si pensi, e telefonicamente con Pinardi, si è delineata l’esatta quadratura tecnica degli innesti compiuti:
-l’iniziale Khnum si riferisce alla divinità dell’Egitto, ma la protezione attuata sulle sorgenti del Nilo non è per nulla faraonesca, si tratta invece di sovrapposizioni di fonemi tendenzialmente simpatici, in grado di cullarci come filastrocche per bambini;
–Tin Hinam ha più strati: inizia con un canto armeno e poi esibisce uno slang fanciullesco che costruisce la struttura ritmica; assieme ad una melodia arabizzata, si avvertono sprazzi di un coro polifonico medievale, che alla fine dà posto ad finale di matrice haitiana;
–Gurfa comincia con una larga armonia che incrocia l’incipit corale dei Beach Boys con i canti polifonici popolari del Mali; nella seconda parte una sapiente accelerazione degli elementi è dettata dalla produzione tecnologica;
–Mbuki-Mvuki mette in serie il Ladysmith Black Mambazo di Graceland, gli atti cerimoniali dei nativi americani, il basso naturale di McFerrin ed un ritmo latino ad hoc;
–Sygyzy è il pezzo più interessante in assoluto: si apre con un esercizio di respirazione-inspirazione e lavora su un canto operistico distraente, con molto carburante elettronico e sperimentazione sui suoni gutturali; raccoglie un’emissione vocale che sembra provenire da un cantante rauco di New Orleans o da un Tom Waits bistrattato all’ennesima potenza;
–Tingo mixa un afflato melodico tra reminiscenze di Brasile, Earth, Wind & Fire, e la lingua africana: un pezzo decisamente impostato all’orecchiabilità;
–Ohrwurm, inizia con un canto bulgaro, e poi si dipana con una struttura ritmica che distoglie il clima: ad un certo punto sembra suggerire il Trio Lescano; ma poi cerca anche di riprodurre un pacchetto anonimo di sensazioni, condividendo un canone medievale ed un ricordo di battaglia celtico;
-su Eostre abbiamo modificazioni vocali sparse, anche vivibili come drone music a velocità rallentata: si crea un mondo liminalmente sommerso e difficilmente intercettabile (con inserimento di pianto di neonato), laddove il brano finisce con un canto antico e svela la finalità dell’intera opera, ovvero quella dell’augurio di una rinascita della nostra bellissima civiltà, basata sull’accettazione positiva di tutti i rapporti contemplati.