Non sembra essere cambiato molto il mondo, nel tempo: quando si cominciò a parlare di cinematografia a fine ottocento, i registi-pionieri della nuova arte (i f.lli Lumiére e George Méliès) catalizzavano le categorie dei “realisti” o dei “sognatori”, una distinzione che, semplificando molto l’analisi, sembra potersi replicare ancora oggi.
Se George Méliès non perde un centimetro del suo fascino, il motivo è che egli è un contenitore di storia, arte e di potenziali intuiti dell’imprevedibile disponibili per la creazione: nell’era dei cortometraggi di pochi minuti, Méliès si rendeva conto di avere una miniera nelle mani, da poter mettere a disposizione di un pubblico che certe cose le aveva potuto solo immaginare grazie ai dipinti; la suggestione del regista francese era ampia, poiché ricomponeva fasi letterarie, aspetti scabrosi o illusionistici della vita o della scienza, la gestione di una scenografia teatrale con ballerini e comparse, e soprattutto una pletora di mezzi speciali utili per una rappresentazione fuori dai canoni.
Da Méliès prende coscienza anche l’ispirazione del sassofonista Massimo Falascone. La suggestione di Falascone non è tesa però alla creazione di un riempitivo musicale, una potenziale soundtrack dei films del francese, ma è tutta incorporata nel pensiero e nell’arte del regista: tra i molti collettivi che Falascone ha unito nel passato, questo dei Seven dedicati a Méliès è uno dei più centrati della sua intera carriera, perché le fonti musicali a sostegno si perdono in un ricordo solo evanescente, dando giovamento ad un concetto di improvvisazione totalizzante. Chi conosce Massimo, sa quanto sia vicino stilisticamente a Coleman e Sun Ra, a Cherry o al prog inglese, ma sa anche quanto importante sia l’improvvisazione tout court nello sviluppo di qualsiasi progetto musicale: in Méliès (spettacolo e cd per Auditorium R., con Giancarlo Locatelli, Alessandra Novaga, Alberto Tacchini, Silvia Bolognesi, Cristiano Calcagnile e Filippo Monico), viene concepito un take back incredibile, che quasi spaventa per il modo con cui viene presentato lo spirito utopico del regista francese. Gli artisti si presentano in scena con stranezze nel look o nell’abbigliamento (Massimo indossa occhiali di un pilota da caccia ed un camice bianco, la Bolognesi entra in sintonia con un costume da scheletro, la Novaga con un cappello a cilindro dell’epoca, etc.), si intendono solo su qualche parte scritta (e l’improvvisazione non è per nulla pensata per intenti radicali o perfettamente non idiomatici), usano estensioni ed oggetti (Falascone ha un tavolino da inventore, Monico usa oggetti strani e bolle di sapone), e girano a mò di vortice incosciente su una musica che coglie le qualità cinematografiche realizzate da Méliès (ciò che si ripresenta auralmente è il senso della movimentazione, la dissolvenza, la magia e il tono avventuroso).
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In Méliès i risultati sono andati oltre le più rosee previsioni: c’è da fare un plauso a tutti i partecipanti (per gli assoli, la compenetrazione e i livelli raggiunti dalla musica), ma anche capire se esistono altre vie di sviluppo di questa brillante idea: ad esempio, pensando al cortometraggio dell’Uomo Orchestra, si potrebbe tentare di emulare in qualche modo lo schema degli strumenti (in quel corto gli sdoppiamenti prevedevano anche trombe e violino), e senz’altro si potrebbe creare anche una videoproiezione che riproduca le corrispondenze su cui ragionavo prima (cercando, naturalmente, approfondimenti e ammodernamenti anche in quel campo).
Méliès è un’operazione culturale, di quelle che certamente hanno dei ganci nella storia, ma che è anche espressione di una propria impostazione, un’operazione che mutua principi anche della Tai-No Orchestra. Di questi tempi, è come trovare aghi nel pagliaio.