Sassolini, perle, action painting, arte cattiva ed omnifonie

0
705
L’attuale disfacimento culturale è complice di un avvitamento che attanaglia anche il mondo musicale. In questa situazione, uno dei compiti ingrati di un discografico è quello di fornire resilienza in un contesto che si assottiglia in maniera severa: in casa Setola di Maiale, Stefano Giust ha portato avanti una coerenza che non si frantuma nemmeno di fronte ai più delittuosi tentativi della stampa di trascurare un’importante rubrica della musica contemporanea, quella in cui è necessario ascoltare e distinguere, imparare a riconoscere la verità dei contenuti e, in definitiva, comprendere l’arte che la sottende. In questo scenario va da sé che le scelte di Stefano vadano sostenute.
Nell’ultima tornata di novità della sua label, le opportunità musicali che danno senso a questa ricerca di coerenza e qualità, non mancano di certo. In questo post mi occuperò solo dei musicisti non italiani, rimandando ai prossimi giorni un’analisi di quanto prodotto da musicisti di casa nostra. Si tratta di due chitarristi statunitensi (Jeff Platz e Steve Gibbs) alleati con una tratta di improvvisazione germanica (tedeschi ed austriaci) e del celebre Philip Corner, noto americano del Fluxus, rapportato con due esibizioni divise tra l’Italia (sua residenza) e la Cina. Sono ponti fra continenti ancora fruibili e, per quanto concerne l’Oriente, porte aperte per una prima conoscenza di una realtà improvvisativa che si rinnova oggi al buio delle nostre istituzioni musicali.
Pebbles & Pearls è il titolo di un cd di un quartetto di improvvisatori che vede il chitarrista Jeff Platz unirsi a tre improvvisatori di rango dell’area tedesca, in un concerto al Kunsthaus di Wiesbaden, un luogo celebrativo della cultura tedesca con gallerie d’arte, sale destinate a conferenze e seminari ed un’efficiente biblioteca a supporto degli artisti. I tre improvvisatori di lingua germanica sono il sassofonista Dirk Marwedel, il contrabbassista Georg Wolf e il batterista Jorg Fischer; si tratta di figure considerevoli della free improvisation tedesca della seconda generazione, musicisti che non hanno nulla da invidiare quanto a tecnica ed idee improvvisative, a quei musicisti che hanno avuto una visibilità maggiore, costruita anche con qualche incisione in più. Marwedel, in particolare, è uno specialista delle estensioni del sax (ha estratto sonorità da tubi, palloncini ed altri corpi sonori), interessato ad intersezioni con installazioni, pittura e sculture (quelle sonore in pietra di Kubach & Kropp): ha suonato in moltissimi festivals ed ha finanche sviluppato una sua filosofia improvvisativa. Wolf e Fischer vennero alla ribalta come la sezione ritmica di Uwe Oberg, quando nel ’97 incisero Lo, un cd che gli appassionati del settore hanno avuto modo di apprezzare nel laboratorio di Leo Feigin.
Va da sè che strumentisti così validi ed esperti non possono che far bene in Pebbles & Pearls, che fa la somma delle capacità e richiama concezioni artistiche: un sound fisico, aspro ed astratto, che lascia trasparire anche lievi tracce idiomatiche. Platz porge le melodie con note discontinue o sotto forma di enigmatici riverberi, Marwedel le contrasta sul sax, versando in “antipatiche” segmentazioni od estensioni tese ad inasprire timbri e registri, Wolf e Fischer sorreggono con empatia e personalità la sessione improvvisativa, prendendosi con profitto anche un proprio spazio di libertà.
Pebbles & Pearls è un omaggio alle teorie dinamiche e alle strutture modificabili: passa da casuali tessiture insabbiate nei regimi calmi dell’acustica musicale, ad azioni di cambiamento di stato che producono tracimazioni energiche. Un calcolato espressionismo astratto applicato alla musica, certamente non nuovo, ma che si lascia apprezzare per la percezione d’arte che riesce a trasmettere.
Dopo aver partecipato allo splendido quartetto di Wasteland, il chitarrista Steve Gibbs ritorna su Setola con il trio Namu3, progetto d’improvvisazione attuato assieme al pianista/percussionista Joachim Riffel e al violoncellista Willem Schulz. I tre suonano insieme da diverso tempo, attuando una presentazione in scena che potrebbe ricordare un riempitivo barocco: piedi nudi, raccolti in uno spazio ravvicinato, con Gibbs che impugna una chitarra preparata a 8 corde e Riffel seduto a terra con un set di percussioni ed oggetti.
Il sottosuolo teorico di Un deux trois quatre (questo il titolo del cd) è quello di un set improvvisativo speciale, che al suo interno condisce alcuni elementi: una particolare esplorazione delle virtù teatrali, senza una vera connessione temporale, un riferimento alle incomprensioni del linguaggio dadaista e a quelli vergini, sviluppati in seno all’improvvisazione degli anni sessanta, austerità e interposizione sulle estensioni. che paiono maltrattamenti. I numeri della titolazione indicano 4 brevi sketches, che ingabbiano musicalmente la dimensione dei teatrini dei burattini, fornendo supporto sonoro a ciò che potrebbe essere immaginato come una via di mezzo tra farsa e stordimento non-sense; si travolgono i significati, i recitativi diventano atti sfigurati che nascondono drammaturgie leggere di diversa provenienza, anche geografica (l’Oriente tiene anche il suo peso), ma in queste trasmigrazioni immediate dei suoni c’è la possibilità anche di innamorarsi della stranezza, di soffermarsi con piacere sulla sensazione complessiva derivata dal complesso preparato dei suoni, la tavolozza creativa sprigionata dall’action painting in sound, la definizione usata dai tre musicisti per descrivere il loro assetto musicale.
Quando si compie una ricognizione sul movimento Fluxus per verificarne la sua vitalità, spesso ci lasciamo trascinare da falsi preconcetti: si fa presto a dichiarare la morte di qualcosa che invece diventa un patrimonio estendibile al pari dei tanti movimenti artistici che la storia ha prodotto; teoricamente si potrebbero costruire ancora scorie del medioevo, della classicità o dei “disturbatori” dell’arte del novecento. Riguardo al Fluxus, abbiamo la fortuna di avere ancora con noi alcuni dei suoi rappresentanti storici, nonostante l’inevitabile arrivo dei capelli bianchi: uno di loro vive proprio in Italia. Documentare l’attività di Philip Corner non è certamente compito facile alla luce di quanto prodotto in più di mezzo secolo, tuttavia l’attuale rapporto creato in Setola di Maiale è la migliore delle sistemazioni che l’artista statunitense potesse trovare, il luogo giusto per far girare le sue produzioni (un primo impatto c’è già stato grazie a 3 precedenti pubblicazioni); ciò che Luigi Meneghelli chiama “autentico azzeramento del linguaggio” è quanto si propone spesso in registrazioni ed opere di Corner, ed anzi, il cd gli va pure stretto, in mancanza di un impianto visivo dove verificare il resto.
Due sono le pubblicazioni proposte: un concerto distraente del 2014 a Reggio Emilia, con l’Ensemble Dedalus*, ed uno proveniente da Shangai con improvvisatori cinesi. Per quanto concerne il primo di essi, non sarebbe male se andassimo a disturbare le affermazioni di Rosenkranz sull’estetica del brutto: Corner ha impostato una Ugly music, improvvisazioni composte facendo ricorso ad una serie di manovre completamente in conflitto con qualsiasi regola di buona riuscita; grazie alla scrittrice Ivanna Rossi abbiamo anche un commento e qualche foto di queste esibizioni (vedi qui), da lei chiamate “sconcerti” per via delle preparazioni usate, degli stridori profusi, degli ululati e conati simulati da Corner. Ma quanto cercato da Corner è un concetto di conversione dell’arte, di scavalcamento delle logiche, di adesione ad una politica di graduazione del brutto a cui non interessa forse nemmeno una valutazione. Per un’operazione che insiste sul fatto di voler vivere nella negazione degli eventi e nell’opposto razionale, la riuscita sta nella dimensione emotiva dei suoni creati e far suonare tutto non significa automaticamente garanzia di successo: le tre evoluzioni di Dedalus Parma 30 May, 2014 forse non permettono di avere la stessa visione entusiastica di Corner, tuttavia rendono benissimo l’idea di uno strapazzamento del mondo e di un suo incredibile, animalesco come back temporale.
La seconda pubblicazione è un concerto tenuto al Power Art di Shangai nel maggio del 2018, da un gruppo di improvvisatori cinesi. Naturalmente Corner non ha partecipato all’evento, ma ha fornito le sue istruzioni minimali all’ensemble, istruzioni che sono indicate all’interno del cd, in cui si nota anche una distribuzione spaziale dei musicisti non prevista da Corner.
Viene ripreso il concetto di omnifonia, una nozione che Corner ha già utilizzato per una art performance tenuta a Genova nell’ottobre del 1996 (filmato reperibile presso la Fondazione Bonotto); in quella esibizione Corner dipingeva tracce a scansioni regolari di tempo, suonava un lungo corno coaudiavuto dalla danza di Phoebe Neville e dal violino scomposto di Malcolm Goldstein, arrivando a suonare anche un synth bendato sugli occhi: ciò che contava non era solo dimostrare che tutto è sonoro, ma che anche qualsiasi modificazione implementata da più fonti può creare una voce unica ed irripetibile, una propria dimensione surreale. Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con l’artista americano, a cui ho chiesto se ci fosse un legame con l’evento di Genova e Corner mi ha fatto comprendere (con una forma carismatica di scrittura, incredibilmente significativa) come in quel momento non avesse ancora una filosofia completa sull’argomento.
In Omniphony concentrate for a multicultural mix il principio è chiaro, voce/dimensioni che si sostanziano in una trasposizione geografica dettata dall’empatia spirituale e politica che l’artista ha sempre riversato sulle tradizioni orientali: Corner mi ha inviato un testo straordinario, che sarebbe stato utile riportare nelle note interne; si lavora sull’importanza dell’oggettività delle azioni e della realtà, grazie ad un intraprendente ensemble di musicisti cinesi (noi europei sappiamo troppo poco della situazione improv attuale orientale!), che suonano guidati dal sassofonista soprano Jun-Y Ciao**, con inserzione di zhong ruan, indian flute, sheng, erhu, oltre che di cello, bass guitar e mini tastiera.
Si tratta di 2 brani di circa 20 minuti: in As an OM, Philip dà questa istruzione: “each plays the chosen-collectively unison-drone  with all the stylistic characteristics of their particular cultures...”; modulato su tonalità stranianti, viene dotato di un’ottima tensione, e si evolve organicamente al pari di una fermentazione; i suoni sono scomposti, difettano nello stare nei binari della tonalità, similmente a quella situazione ambientale di un’orchestra che cerca un primo raccordo in sede di prove, con in mente un mantra e il raggiungimento di un respiro collettivo.
In on a Drone, l’istruzione è: “a free improvisation on indigenous instruments  or vocal styles  based on a common-sustained-tone (which could be “neutral” like electronics) – or taking it up between their solos“; qui il clima diventa più estatico, il silenzio acquisisce un ruolo più definito nella successione degli interventi musicali, e vengono contenute anche zone di canto impostate alla preghiera, con spunti elegiaci che profumano di iconografie orientali.
_____________________________________________
Note:
* l’Ensemble Dedalus era composto da Amélie Berson (flauto), Thierry Madiot (trombone), Deborah Walker (violoncello), Silvia Tarozzi (violino), Didier Aschour (chitarra), Sofi Hémon (score design) e Philip a pianoforte e voce.
**I musicisti della perfomance sono: Fish (bass guitar), Mo Sha (zhong ruan), Yi Tao (percussioni e flauto indiano), Tian Wang (violoncello), Meng Zhang (sheng), ShiNuan Zhao (mini keyboard), YunQi Zhu (erhu), oltre a Jun-Y Ciao al sax soprano e alla project direction.
Articolo precedenteGreyfade Records: la nuova label di Joseph Branciforte
Articolo successivoIl suono ruvido dell’innocenza
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.