Nell’avidità della lettura di un giovanotto innamorato della musica, nel gennaio 1984 seguivo le pubblicazioni in edicola dell’Ultimo Buscadero è rock, una rivista specializzata condotta da Paolo Carù ed Aldo Pedron: internet non esisteva, tutto passava dall’informazione cartacea, unico modo per essere informati a distanza. Mi direte, perché faccio questa segnalazione personale? Il motivo è che nel numero della rivista di gennaio Carù scelse come disco del mese The Brightest smile in town, un Lp di Malcolm John Rebennack, in arte Dr. John, di cui oggi commemoriamo la scomparsa.
Personaggio eclettico, praticante del voodoo, all’epoca di The brightest smile in town Dr. John si trovava in crisi di popolarità non cercata: il tiro di quella recensione (che allego in foto sulla pagina facebook) era proprio quello di rianalizzare un’artista che se ne infischiava delle mode e che aveva un suo progetto strettamente collegato alla musica di New Orleans. Riflettevo al fatto che quel momento (vissuto da diciottenne) resta lo spartiacque per una inesorabile discesa qualitativa della sua musica: il “dottore” aveva osato ripetersi dopo l’eclettico Gris Gris, l’esperimento boogaloo-voodoo che lo aveva imposto nel ’68, e poi dopo qualche tempo aveva accelerato sul funk e i ritmi danzabili degli anni settanta, ma nel 1984 di Gris Gris e della riunione curativa se ne era persa traccia, del funk restavano solo le ombre e ciò che si ricordava di Rebennack era il fatto di aver contribuito alla musica per pianoforte di New Orleans, una generazione dopo quella di Professor Longhair o Huey “Piano” Smith, musicisti abilissimi ma decisamente inclinati verso il r&b e il rock’n’roll; la musica del “professore” o del “dottore” non si insediava certamente nei principali gusti dei jazzisti, che spesso la ritenevano priva di peso se comparata a quella di Jelly Roll Morton. Antonio Lodetti nel suo Guida alla musica del diavolo, nella scheda dedicata a Professor Longhair afferma che “…se infatti il peso delle invenzioni, delle scansioni ritmico-melodiche e delle partiture di Jerry Roll hanno influenzato l’ala più intellettuale e colta della “black music”, altrettanto certamente la trascinante statura di “one man band” del Professore – e il “crossover” di stili che coinvolge caleidoscopicamente il “boogie woogie” e le inflessioni jazzistiche, il calypso e le influenze francofone del Mardi Gras, la rhumba, l’habanera e i ritmi latino-americani, i profumi caraibici e i sapori tex mex, le “marching bands” e il Vodeodo – hanno segnato indelebilmente l’evoluzione dell’ala più moderna, rhythm’n’blues e “soul oriented”…“.
Quello di The brightest smile in town fu dunque l’ultimo, vero baluardo di rivalutazione che si potette attribuire a Dr. John: ritornò in circolo The Gumbo, un Lp di classici New Orleans rivisitati, e Dr. John plays Mac Rebennack, il solo piano del 1981, il suo capolavoro, in grado di raggiungere un livello ed un equilibrio musicale mai sfiorato prima in nessuna registrazione del musicista. Qualche anno più tardi si scoprì anche crooner e melodico con jazzisti come Art Blakey, David Newman o Ray Anderson, a cui si unì per l’esperienza del Bluesiana, ma con risultati decisamenti discutibili, e nella non nutrita produzione di nuovo secolo l’unico buon estratto è l’operazione di N’Awlinz: Dis dat or d’udda.
Oggi l’invito è perfettamente speculare a quello di Carù nella sua rivista: riprendere almeno i due volumi Clean cuts per godere di un pianismo più articolato, brillante e godibile; è espressione anche della “felicità” di un periodo storico di cui cerchiamo caparbiamente di evitare l’impatto nostalgico.