Il secondo percorso ha a che vedere con gli standards: sempre con l’hp3, Stretching the standards è una lezione di quanto lontano si possa andare con i rifacimenti. L’elastico a cui si riferisce Lenoci e il suo trio è qualcosa che lega la creatività, le intromissioni mentali che restano a galla di Rollins, Gillespie, Waldron o altri e la possibilità di introdurre dei correttivi e degli sviluppi che rinnovano pezzi famosi senza farci pensare troppo alle fonti. Si parte dall’accenno di un tema e poi si perlustra la tastiera con la propria capacità tecnica ed espressiva: senza entrare nelle estensioni tipicamente condotte negli interni del pianoforte, l'”allungamento” risolutivo sulla tastiera diventa essenziale, è quasi fisico e si accorda con una propensione dell’artista a districarsi nelle possibilità sonore di accordi e prese di posizione delle mani, ragguagli melodici e armonici che tentano di raggiungere (attraverso una piena presa sonora della tastiera) dei ritorni sonori brillanti e correlati direttamente all’allungamento previsto.Munito di una bellissima fotografia in copertina, Wooden mirrors è il risultato di un’altra collaborazione tra Cristiano Bocci e Daniel Barbiero; i due suonano entrambi il contrabbasso in due pezzi, con Bocci che si occupa anche dell’elettronica. Cristiano lo senti a destra, Daniel a sinistra. La title track ha un andamento vario e complementare: i due si intonano per un pò sul pizzicato, per poi dirigersi sul suono all’arco ed infine ritornare al pizzicato; ciò che evidente è che si cammina liberi, si confondono gli stili (Daniel con l’arco evoca molto l’austerità classica), si sfruttano i timbri profondi dello strumento. From a councourse sfrutta degli espedienti sintetici per decuplicare ciò che proviene da un suono singolo: la mano di Bocci si fa sentire e si percepiscono molte cose nell’ascolto, dall’avvincente trama musicale (che deborda da quanto il timbro del contrabbasso è in grado di consegnare) alle ripetizioni, alle enfasi ritmiche e alle scorie granulari che il brano presenta (potrebbe essere un’idea decisamente personale di un pezzo di Riley dei sessanta); l’ultima parte, in cui si recupera in parte il tradizionale timbro del contrabbasso, è decisamente riuscita, come entrare musicalmente nel collo di una bottiglia.Si conosce la natura divertente della musica di Enzo Rocco. Quando Enzo mi ha mandato la segnalazione di The worst of mi avvertiva del fatto che fossero brani vecchi e un pò scemi che gli andava di riorganizzare e proporre. Assieme all’assistenza di Simone Mauri al clarinetto e Davide Bussoleni alla batteria, The worst of è molto meno ironico e “scemo” di quanto si possa pensare; contiene alcuni dei suoi classici, ma rifatti benissimo, con delle parti improvvisative ottimamente riuscite. Enzo ha la capacità di portarti in un mondo di omini che si muovono, che compiono azioni, sanno conglobare situazioni (sentire quanto succede nella parte finale di Mazzalarossa); il suo è un teatrino delle declinazioni delle favole, mi fa ricordare quando da bambino leggevo Riccardin dal Ciuffo o cose simili, ma il tutto è fondato in un contesto in cui ci si deve abituare a leggere tra le righe per capire i suoi significati. Passa dal free, la sindrome popolare e da un’ironia stemperata, che dovrebbe essere alla base della nostra vita.
Molto interessante si presenta l’operazione del trio Vittorino Curci, Gianni Console e Walter Forestiere. Le Mute Profondità che propongono i tre musicisti sembrano relazionare un certo tipo di poesia, la respirazione dei pesci e la respirazione improvvisativa, lavorando sulla potenza simulatoria degli strumenti di contro ad un tappeto sonico-percussivo minimale (anche un synth talvolta, contro sax alto, tenore, baritono, pipes); con un occhio ai sassofonisti free jazz dei settanta ed un’altro agli estensivi tipo Gustaffson, Curci e Consoli si intonano sulle tecniche estensive per stimolare i sensi dell’ascoltatore al recepimento di situazioni, drasticamente determinate dall’improvvisazione. E’ linguaggio che alterna suoni distorti a zone di strascico strumentale, atti incendiati di energia che viaggiano qualche volta al confine di genere, con parti in cui anche la voce è impegnata in un suo incedere attraverso bocchini e i canali d’aria dei sassofoni. Una fondamentale caratterizzazione del suono proviene anche da Forestiere, che è sempre in grado di impostare con poche mosse un ottimo background sonoro, che ti mette sempre sull’allerta della percezione e del trapasso fenomenologico. Il jazz è reimpostato totalmente e basta ascoltare Fantasmi armolodici per capire che qui siamo su un’altra linea di condotta rispetto a quella di Coleman.
Portare la vita nelle tele del pittore, questo era il motto dei realisti. Edward Hopper fu uno di essi. Hopper però la filtrava spesso attraverso una finestra o una porta, gente seduta che guarda fuori, legge o discute sotto l’influsso della luce che proiettano. C’è una parte del suo lavoro che in molti hanno visto come espressione della solitudine, traendo sostanza dal dipinto Hotel Room e da altri contenenti ambientazioni simili. Hopper è l’ispirazione dei loops creati dal sassofonista Alberto La Neve nel suo ultimo Night windows; il tema è creare un giro ripetuto di sax su cui incastonare nuovi elementi di arricchimento, intersecare i costrutti ed ottenere una relazione illustrativa; lo sforzo è trovare un nesso tra i dipinti dell’americano e una New York pensosa e malinconica, una sorta di alienazione riportabile ai nostri tempi (basandosi sul fatto che molte situazioni odierne potrebbero derivare da quelle dei tempi di Hopper). L’esperimento del loop è certamente interessante anche se un pò sfruttato e perciò La Neve cerca di superarlo con assoli dettagliati, che simulano quel senso di artificioso che scatta nella valutazione della metropoli americana. Un dettaglio non secondario si trova in Room in Brooklyn grazie al canto melodico e gelido di Fabian Dota.