L’occasione per approfondire la musica di Gian Luca Ulivelli, compositore di Vinci nato nel 1970, è arrivata tramite una mail susseguente ad un articolo che avevo scritto per documentare la recente attività dei trio sax-pianoforte-percussioni nella musica contemporanea; in quella sede citai Hrabaliana, un suo pezzo con aggiunta di live electronics, di cui ero però completamente in difetto per quanto riguarda l’ascolto. Sono molto contento di aver colmato la lacuna e ancor di più perché ho avuto modo di scoprire un compositore dal profilo musicale-estetico veramente attraente, con solidi riferimenti ad un certo tipo di letteratura ed arte moderna.
La musica di Ulivelli esplora un sentimento latente, quello di una persona che affronta il mondo, cammina tra la gente con fare esitante e curioso, ma poi scopre la grande solitudine che ne proviene: Hrabaliana faceva riferimento a Bohumil Hrabal, ma il confronto va specificato nella direzione di quanto lo scrittore ceco ha compiuto tramite il racconto di Too Loud a Solitude, dove ci si imbatte nel paradosso di un uomo supercolto che, per via del suo lavoro e le sue inclinazioni del sapere, è un recluso della lettura. Egli prova l’abbandono del mondo attraverso meditazioni surreali del suo operato. Ulivelli ha palesemente dichiarato di rappresentare la solitudine con mezzi particolarmente efficaci e reali in pezzi come Post Scriptum o Da soli paralleli, che vogliono essere manifestazioni del nostro modo di essere in questo mondo: “….soli, ognuno di noi in galassie in espansione, soli nel magma quotidiano…qualche raro sfiorarsi con l’altro e con gli altri…” (dalle note di Post Scriptum); nel caso di Ulivelli, però, il sentimento della solitudine si avverte tremendamente anche al termine degli ascolti, come in un finale vuoto, che ritorna confinato alla situazione di partenza. E’ un aspetto interessantissimo, che ha anch’esso una valenza poetica, poiché richiama l’enigmaticità oscura del poeta preferito di Ulivelli: nelle poesie di Atemwende, Ulivelli ha trovato un modo per specchiarsi nella stessa sostanza dell’immagine complessa e quasi surrealistica del poeta tedesco Paul Celan, anche se la sua musica non raggiunge gli stessi livelli paradossali.
La scelta di Ulivelli è di far emergere strutture piene di senso e gli strumenti, utilizzati con molto acume e personalità, non si curano di attaccare o dividere, ma di presenziare una realtà, fornendo i giusti contrasti. Fin da Atemwende Ulivelli ha prodotto uno stile, qualcosa che temporaneamente riesce a fornire un sistema d’ascolto in equilibrio per voci invece estreme nella loro “posizione”: in Atemwende per solo flauto basso, la contrapposizione avviene nella stessa sede del musicista, mentre per gli altri pezzi bisognosi di più strumenti (in ordine temporale Sprachgitter per quartetto d’archi, Eoma per un percussionista solista e tre percussionisti disposti nello spazio, naturalmente Hrabaliana, Da soli paralleli per fisarmonica e live electronics e Post Scriptum per due pianoforti) si assiste ad uno scontro tessurale e timbrico, dove già la dialogicità dei movimenti da sola permette di pensare; si comincia da una trama estensiva dal piglio quasi distratto, per continuare su un’altra impostata sui registri gravi, come combinazioni sonore che bollono in superficie e finendo all’intreccio delle voci strumentali, che restano traumatizzate solo alla distanza perché non più in grado di coabitare nello stesso ambiente.
Alcune parti di Hrabaliana, per la loro morfologia armonica, scontano anche l’equivalenza di un certo espressionismo astratto pittorico, mentre in Post Scriptum Ulivelli utilizza clusters e ponti di risonanza che si rimbalzano tra loro, superball e gomme particolari introdotte negli interni, un apparecchio da lui ideato che permette la vibrazione delle corde interne del pianoforte senza il colpo dei martelletti (il Pardini-Gerat). E’ sostanza tecnica che si sente nella musica, aiutata anche da una sapiente amplificazione: basti pensare a Eoma e a quante soluzioni sonore riesce a fornire.
Come molti compositori, anche Ulivelli ha compreso l’importanza dell’esaltazione di certi materiali sonori tramite le fonti dell’elettronica e del progresso informatico e la sua esperienza tedesca, nella prestigiosa sede degli studi di Friburgo, è di importanza vitale per costruire le dimensioni esatte di quanto si esprime.
Ho raggiunto Ulivelli telefonicamente: qui vi riporto gli highlights della nostra chiacchierata, che si pongono anche in una relazione esplicativa con la musica. E’ bellissimo il fatto che Gian Luca, non appena ci parliamo, mi definisce una “mosca bianca”, un’ironia che ha a che fare con il tipo di musica ascoltata e la posizione geografica. Poi approfondiamo:
EG: C’è un filo conduttore nella tua musica: mi pare di scorgere nelle tue composizioni qualcosa che si ripete. In Atemwende, negli archi di Sprachgitter, in alcune trame di Eoma, etc. avverto la sensazione di qualcuno che entra in un aggregato e cerca un contatto. E’ un’idea ricavata dalla poesia?
GU: Si, ci sono delle cose che ritornano. Atemwende, Sprachgitter, Dialoghi sono composizioni legate tutte alla poetica di Celan, che è stato un grande amore. Quello era il periodo in cui avevo cominciato a frequentare la Germania e passai da una lettura italiana dell’autore a quella tedesca, scoprendo un mondo! Le sonorità delle sue poesie si legava incredibilmente alla ricerca tecnica e strumentale che facevo in quel momento: suoni soffiati, respirati, ottenuti con particolari tecniche, etc. Andando avanti si sono aperte altre prospettive, come la filosofia di certi autori, la poesia francese con poeti come Du Bouchet, ma in generale tutta la poesia contemporanea mi affascina molto.
EG: Qual è l’elemento su cui agisci per creare il dialogo? Alla fine quel dialogo si esaurisce e si sviluppa inconsciamente una situazione glaciale o quantomeno si prospetta un surrettizio ritorno all’apertura?
GU: C’è un’idea di canto che si dipana, non tanto di melodia, forse è questa la chiave per acclarare la sensazione di dialogo che tu avverti. E’ un canto in più direzioni: una voce all’inizio titubante poi entra nel vivo della situazione e regge i contrasti. Il fatto di risentire l’inizio in realtà va specificato nel mio caso: tutto ciò che è venuto in relazione viene trasfigurato in qualche modo; l’esperienza della musica appena passata non solo ci procura una sorta di controcircuito del pensiero, ma tende anche alla trasfigurazione del dialogo stesso. A tal proposito mi sovviene una citazione da Homburger Folioheft di Friedrich Hölderlin che recita “Mit Gesang ein wandernder Mann“.
EG: Quanto è importante per la tua composizione il supporto del canale dell’elettronica?
GU: Per me è fondamentale il rapporto con il suono, perciò ricevo uno stimolo fortissimo dalle possibilità infinite di trasformazione del suono; il rapporto tra suono e struttura è fondamentale per la mia visione compositiva. E’ vero che avere tantissime scelte di lavoro può anche portare a dispersione totale, però è vero anche che è necessario avere un’idea e la conoscenza di esse, riuscire a tendere verso qualcosa, a livello formale o di percorsi musicali, ottenere loro arricchimenti, certe volte anche deviare dalle possibilità che il suono ti apre.
EG: Tu hai lavorato nel centro culturale dello ZKM di Karlsruhe e soprattutto negli studi di Freiburg, presso l’Expermentalstudio des SWR, il luogo dove Nono attuò la sua incredibile esplorazione. Qual è la situazione oggi di quel posto?
GU: Si lavora bene a Friburgo, ma bisognerebbe avere a disposizione giornate di sperimentazione come avveniva ai tempi di Nono, ore ed ore di lavoro sul suono, da cui poi nascevano grandi scoperte. Purtroppo oggi anche lì i tempi sono ristretti.
EG: A Friburgo è cambiata la politica, da marxista a democratica!
GU: Nono gestiva il centro con pochi compositori. Oggi è entrato all’interno del centro un meccanismo moltiplicativo, dove è necessario il riscontro del fare concerti e produzioni. E comunque, ce ne fossero di fondazioni del genere!
EG: Hai in cantiere nuove composizioni da effettuare con l’ausilio dei mezzi informatici?
GU: Certamente. Sono progetti al momento congelati perché mi sto dedicando ad altro. L’elettronica resta comunque nelle mie inclinazioni: mutuando un pò quanto diceva Varèse a proposito del fatto che “i compositori hanno bisogno di nuovi strumenti”, cerco di replicare e di ampliare le possibilità dei suoni, come se io avessi altri strumenti a disposizione. Il tutto ancorato ad un’idea compositiva, lasciandosi nel contempo provocare un pò dalle nuove opportunità offerte dalla tecnologia.
EG: Molti tuoi colleghi stanno usando nuovi mezzi per comporre: robotica, trasduttori e gestualità collegata a sensori. E’ una frontiera eccitante che però non esclude la composizione ricavata dai software. Più in generale non sono per niente convinto che siano necessarie rotture col passato e che anche un pezzo che oggi ha a che fare con le derivazioni di un Beethoven, ad esempio, sia da valutare in positivo. Tu cosa pensi?
GU: Vero. Io, insegnando nei conservatori, cerco di far capire ai miei studenti l’attualità di un Beethoven, uno dei più grandi innovatori della storia della musica, che dev’essere ben interpretato. Bisogna saper leggere i grandi compositori del passato, ascoltandoli e rivificandoli con gli occhi del mondo contemporaneo.
EG: L’idea di usare il Tonband, il vecchio registratore a bobine, nella mostra dedicata al pittore Giulio Turcato, come si inquadra nella tua produzione?
GU: E’ stata semplicemente una richiesta di una composizione nata per l’occasione dell’omaggio a Turcato. C’era bisogno di un pezzo da diffondere nella sala espositiva insieme a musiche di altri compositori e non doveva essere nemmeno tanto lungo.
Senza volerlo alla fine della discussione ritorna la “mosca bianca” e Gian Luca, illuminato, mi congeda facendomi notare che la nostra disquisizione ha riprodotto le caratteristiche di un suo pezzo. Abbiamo fatto un incontro, un cammino insieme, quel che ne è uscito ha fatto sì che ciò che inizialmente era titubanza e incontro cauto, si è trasformato in nuove risonanze.