Non è un caso che Boulez fosse molto vicino al compositore giapponese Dai Fujikura: nel dover pensare ad una scala di successori, degni di mantenere viva una sostanza orchestrale di un certo tipo, Fujikura era materia viva, un uomo profondamente consapevole delle difficili propensioni del mondo della composizione; oggi le nuove generazioni sono spesso terrorizzate di non trovare nei propri moduli ispirativi le chiavi giuste per proporre novità, in un settore della musica in cui molti di loro subordinano l’innovazione ad un efficace continuazione delle proprie attività artistiche. Fujikura ha affrontato la composizione con le armi di chi non vuole guardare nella sfera di cristallo, ma tenendo ben a mente ciò che è disponibile per una creazione comunque di spessore. In queste pagine ho parlato di lui brevemente, dapprima per una citazione di Secret Forest, un pezzo bellissimo di 13 minuti per ensemble del 2008, che l’ha imposto all’attenzione nell’ambito di quel circolo di giovani compositori cresciuti in Inghilterra e poi, per una recensione di un cd alla Kairos del 2013 (dal titolo Ice, vedi qui), in cui Fujikura metteva assieme chitarra elettrica ed acustica, live electronics, tagli di frequenze e sviluppi su tensioni inarmoniche; ma, in questi anni, il compositore ha accelerato sulla quantità, sia sul versante orchestrale (con molta produzione concertistica) che su quello dei singoli strumenti (con una buona equivalenza di strumenti occidentali e di matrice orientale). Naturalmente, chi vi parla predilige il lato orchestrale, ma non c’è dubbio che pezzi per cantanti, cori, violoncelli, chitarre acustiche, sassofono, koto, shakuhachi, taikos, shamisen, etc. (la lista è piuttosto lunga!) abbiano anche un loro positivo comune denominatore, sebbene differente e meno incisivo di quello delle composizioni orchestrali.
Ai fini di una buona descrizione di quanto trasmette la musica di Fujikura, mi sembra molto appropriata la nota di programma che l’artista ha scritto durante la permanenza all’IRCAM nelle more compositive di Prism Spectra, riferendosi agli “amici” elettronici: “….Je les ai conçus pour qu’ils se comportent comme des poissons dans un océan tropical. Parfois, ils nagent en banc à travers la pièce, parfois, ils s’élancent au loin comme de petits rayons de lumière entrant et sortant d’un corail ombrageux…..”. La musica di Fujikura funziona proprio così: gli “amici”, per estensione, sono i materiali e il loro trattamento, che denota un retrogusto ben preciso, composto da scrittura celatamente discorsiva, alla ricerca di un disegno realistico, movimentato e senza fronzoli, un regno della consapevolezza che, nei suoi limiti, può risultare radioso. Qualche anno fa Fujkura ha fondato una propria etichetta discografica, la Minabel, con canali di distribuzione differenti tra l’Europa e il Giappone (ma in comune hanno la rete) e puntualmente ci presenta raccolte delle sue numerose composizioni: le ultime due pubblicazioni, ossia Diamond Dust e Zawazawa (rispettivamente 2018 e 2019), colgono moltissimo l’attuale divisione funzionale che la sua musica porta a compimento a seconda dell’oggetto trattato: nel primo lavoro ci sono un paio di perle come il Piano Concerto N.2 (da unire teoricamente al primo piano concerto) e il Double Bass Concerto, oltre a pezzi molto validi per singoli strumenti; mentre nel secondo trovate il Concerto per Tuba, un exploit vocale di Sara Kobayashi (Ki i te) e del Philarmonic Chorus di Tokyo, oltre alle recenti incursioni strumentali, fatte soprattutto sul contrabbasso.
Tra le pubblicazioni più interessanti della New World R. c’è anche questo Folding music, un cd di 6 composizioni rappresentativo del compositore Max Gitech Duykers (1972): nella selva di compositori che affollano il mondo della tonalità, Gitech Duykers può benissimo emergere per un processo e una spinta logica; il processo sta nel lavorare sui contrappunti e sugli spostamenti timbrici, incanalarsi sulle contrapposizioni tra gruppi (violino-viola / flauto-clarinetto / pianoforte / percussioni) che attrassero l’interesse della composizione fin dai tempi dei figli di Bach. Il compositore americano ha creato un suo ensemble, l’Ensemble Ipse, che è estrinsecazione di un lavoro certamente non nuovo sull’armonia, ma che grazie ad un riposizionamento di elementi, va a finire in quella cerchia eletta di prodotti capaci di evitare la trappola della storicità e della retorica; le lunghe note interne di Frank J. Oteri possiedono benissimo lo spettro musicale del compositore, specialmente nella parte in cui afferma che “…Duykers’s music revels in hovering somewhere between graspable tonality and a chromatic tetrachordal harmonic vocabulary that is usually associated with atonal pitch organization, unisons between players as well as a kind of motivic heterophony where players play similarly contoured but different lines simultaneously, constant metric shifts that still somehow groove, trippy microtonal interludes that do not in any way seem theoretically systemic but serve a purpose that is much more than merely ornamental, cadential silences, and—what for lack of a more readily comprehensible term could be described as—“temporary ostinatos”: single notes or chords that repeat incessantly for a period of time but then unexpectedly veer off into something else. Most of Duykers’s pieces also exhibit a high degree of playfulness and exuberant joy. It is telling that Duykers concludes the program notes for several of them with an admonition to the players to “have fun” or “enjoy….“.
Perciò, Folding music salta come un gatto nella stanza o procede con abbinamenti guardinghi, ma nello spirito di un mistero allegro; in Scatterloop c’è molta sintassi jazzistica, soprattutto quella di Tristano, per le sue aperture armoniche che si mischiano a procedimenti più classici; Arborescence è bellissima e in questo cd è rappresentata nella versione per pianoforte solo, originariamente commissionata a Stephen Gosling ma qui suonata da Geoffrey Burleson: i tetracordi creano letteralmente la parte iniziale e scandiscono tutto lo sviluppo armonico, per un pezzo di straordinaria fluidità dove il compositore immagina (e dispone sulla tastiera di conseguenza) di trovarsi di fronte ad un frattale in crescita; anche Dark body è pezzo di grande sensibilità, profondamente intrisa nella realtà dei nostri pensieri migliori, quelli al confine tra gradevolezza ed esplorazione dell’atteggiamento umano.
L’interscambio dei materiali sonori è la principale idea su cui si muove la musica della compositrice Joanna Bailie: la Nmc pubblica una sua prima monografia dal titolo Artificial Environments, monografia interessantissima che raccoglie tre composizioni prototipo del suo stile; la particolarità della Bailie sta nel fatto che usa autonomi campi di registrazioni, estratti speculativi di musica affermata (da Debussy a Brahms), innestati su musica strumentale che gira intorno al rallentamento dei tempi e ai glissando; inoltre la sua è una visione ampia, che si interessa di arti visuali, cinema e installazioni. To be beside the seaside, composizione del 2015, che ha ricevuto alcune immeritate critiche dalla stampa specializzata e che invece potrebbe rientrare tra i pezzi a maggior tasso di creatività degli ultimi anni, è stata accolta nel fantastico libro della Gottschalk sulla musica sperimentale, come esempio di pixelizzazione, poiché in effetti di un trattamento sonico si trattava: si parla di rallentamento, manovra che permette di scorgere un’altra visuale, di accorgerci che esiste la possibilità di un rimpasto sonoro; è un fenomeno che fa susseguentemente entrare in relazione i materiali, dandogli una nuova prospettiva e percezione.
Artificial Environments ci permette di ascoltare Symphony-Street-Souvenir, un omaggio dichiarato a Clementi, dove l’apertura della prima sinfonia di Brahms si adopera per venire incontro ad un clima glissato, rallentato come in un viadotto ipnagogico e dove gli strumenti singolarmente si adeguano agli umori di una mattinata del traffico di Copenaghen; gli effetti del rallentamento si fanno sentire anche in Trains, dove il violoncello solitario di Alice Purton riesce persino a confondersi nei field recordings del viaggio in treno che supporta il brano (a questo riguardo sentire la terza parte soprattutto); mentre nelle Artificial Environments la pluralità degli ambienti sonori riportati dai campi di registrazione (suoni catturati da varie località) si adatta ad una serie di indicazioni di modalità vibratorie degli archi dell’ensemble, che passano nella lente lenta dei suoni attraverso pressioni calcolate sulle corde, posizioni leggere sui ponticelli, ricerca di microtoni e note a mezzo respiro.
Sullo scivolamento e la focalizzazione sul tono si basa anche buona parte dell’analisi fatta da Claudio F. Baroni, compositore argentino che segue quei percorsi aperti tempo fa da Xenakis o Cage: in Motum, cd edito per Unsounds R., Baroni ricorre al concetto di movimento, dove per esso si intende non solo la traslazione del suono ma soprattutto l’origine del rilevamento di plurimi corpi sonori, un micro-dettaglio scientificamente documentato (una volta livellati timbro, dinamicità, consistenze, sviluppi, etc.) in grado di “sdoppiare” la dimensione d’ascolto; è quanto succede nello splendido Perpetuo Motum, eseguito dal Quartetto Prometeo, o nella cornice di infrasuoni che si ricava nei 15 minuti di Air eseguita dall’Ensemble Modelo62. Come ho segnalato anche a Baroni direttamente, lo sdoppiamento subliminale che ne deriva è particolare, perché centra il concetto del “cogliere” da uno scenario sensitivo: una volta che il suono comincia ad esercitare i suoi poteri ne siamo attratti certamente, ma siamo anche in grado di impossessarci dei dettagli, di quelle configurazioni sonore che si evidenziano nella performance; si riesce, in sostanza, a dare rilievo a flussi di suono che potrebbero teoricamente presentarsi lisci, monotoni. Air solo è l’ottava incursione che Baroni ha fatto in un ciclo in cui sono fondamentali le conoscenze dell’elettronica: qui l’inclusione in Motum è fatta su organo e manipolazioni, ma nel suo sito internet si possono scoprire anche quelli per contrabbasso, chitarra elettrica e loops. Imminente è la pubblicazione di un cd che raccoglie la musica di The body imitates the landscape, un’installazione interattiva ideata con l’artista visuale Adi Hollander e l’Ensemble Maze, installazione in cui si invita il pubblico ad adagiarsi su letti ad acqua o panche di legno munite di trasduttori e altoparlanti tattili incorporati: lo scopo è rivelare armonie nascoste, tratte da un discorso senza voce, minimale della musica, che tende a vedere la globalità del corpo umano come magazzino di informazioni.