Un musicista come Fred Frith non ha bisogno di grandi presentazioni: oltre ad essere stato presenza attiva dei movimenti progressivi inglesi ed americani dei settanta ed ottanta, fa parte di quel ceppo singolare dell’improvvisazione in cui i musicisti hanno cominciato a suonare la chitarra ponendola coricata sul dorso, come se fosse un bambino da cullare. Grazie a Rowe, Bailey e a lui, siamo entrati in una dimensione altera degli ascolti della chitarra, quella che si fonda sulla piena libertà delle azioni, sull’uso di centinaia di oggetti applicati sullo strumento in svariate modalità, sulla sperimentazione in tempo reale dei suoni ottenuti. In seno ad un’attività carica di prove discografiche e concerti, la critica ha da tempo estrapolato dei punti fermi, specie quando si effettua un’analisi disgiunta delle esperienze di gruppo (Henry Cow, Massacre, Art Bears, Zorn, etc.), ma pochi oggi si sentono di soffermarsi su un’utenza musicale che a molti sembra normalizzata; purtroppo c’è poca significatività in questa valutazione perché, specie per un musicista che usa le mani, le particolarità, nuovi approcci e nuovi suggerimenti da estrarre su uno strumento modificato, non mancano mai e non vanno fraintesi. Riducendo l’analisi all’attività live di Frith, ufficialmente documentata con registrazioni, si nota che dopo la campagna giapponese espletata con il Live in Japan del 1982 e un postumo leggendario, pubblicato nel 1991 da Wax R., in cui Frith suona con Eiichi e Shunji Tsutaki (entrambi posti in una buona scia dello stile primario ed autentico dell’artista), Frith portò in dote molta pratica improvvisativa con artisti conosciuti e prominenti del suo paese: i French gigs con Lol Coxhill, le esibizioni in molte città profuse con Chris Cutler e poco più avanti le Live Improvisations con Tom Hodgkinson, si inoltravano in deviazioni insopportabili per gli ascoltatori per effetto di un aggravamento della sostanza inarmonica e del rumore. In verità, tutte queste registrazioni non vengono contabilizzate come pezzi della propria discografia e bisogna aspettare l’intervento di Massimo Simonini del supporto di Angelica festival, per ottenere un doppio live a lui imputabile che trae linfa da vari concerti non solo italiani, lavoro che però presentava un Frith compositore, alla prova delle partiture grafiche; c’è da dire che nello scorcio di inizio secolo, Frith è molto immerso nelle fasi compositive, un nuovo rifugio esplorativo che ha un gancio nell’insegnamento di percorsi visivi, a metà strada tra le indicazioni di un minimo strutturale e la creatività degli allievi. Impur II, live del 2009 che documenta un progetto portato avanti con musicisti ed insegnanti di Villerbaune all’Ecole Nationale de Musique, è dunque un effetto (anche politico) di una delle direzioni di Frith, dove peraltro lui non suona affatto. Oltre perciò all’improprio Impur II, i live registrati di Frith negli ultimi vent’anni documentano duetti (Christian Marclay al Café Oto, Evan Parker al Festival Internazional de Musique Actuelle de Victoriaville, Michel Doneda al Swissnex di S. Francisco) ed alcune aggregazioni come quella dei MMM (acronimo che comprende la Leandre, Curran e Leimgruber) e quella recentissima con Lotte Anker e Samuel Duhsler, che ha costituito oggetto dei climax sovradimensionati di Storytelling. Ecco dunque, che All is always now – Live at the Stone, tre cds che l’Intakt R. pubblica coagulando l’attività concertistica intorno al 2013-2014, ha le sue specificità, perché oltre ad essere uno spaccato sonoro del suo modo di operare (tratto da performance che diventano sempre più raffinate) è anche l’occasione per riepilogare un’instancabile attività di instant composition assieme a pezzi forti della letteratura improvvisativa passata e recente: Ikue Mori, Theresa Wong, Annie Lewandoski, Nate Wooley, Pauline Oliveros, ancora Evan Parker, Clara Weil, Sylvie Courvoisier, Laurie Anderson, Miya Masaoka si incontrano allo Stone di New York per stendere un testamento della variabilità dei metodi, delle estrazioni sonore microscopiche real time, dei mondi umorali fantastici ed astrusi che alla fine risultano persino armonici e raffinati (certamente succede per un orecchio educato e gonfio di rumori e suoni di un certo tipo come il mio). A Frith mancava un recupero live in solo, comunque, ciò che è avvenuto in Woodwork, una guitar performance effettuata a Bruxelles lo scorso anno e documentata per l’austriaca Klangaalerie; il Guitar solos, posto più di quattro decadi fa e le improvvisazioni Tzadik di Clearing nel 2001, vengono finalmente aggiornate, sebbene il nuovo secolo abbia imposto le sue leggi: infatti, molte esibizioni dell’inglese sono raggiungibili per intero sulla rete e potrebbero essere, in fin dei conti, degli eccellenti surrogati digitali (ma con una qualità in più, però, quella della parte visiva).
La progettualità della sassofonista danese Signe Emmeluth sembra molto dipendente dagli studi che si svolgono a Nord del mondo (America ed Europa del Nord): quando la bravissima e giovane musicista si stacca dalla realtà improvvisativa tout court per entrare in sofisticate produzioni che coinvolgono l’interplay, mostra che le sindromi geometriche della musica, complesse e dinamiche al tempo stesso, sono una fonte di ricerca per musicisti che vogliono lasciare un segno in quello che si sta delineando un terreno ancora fertile di soddisfazioni: la Emmeluth conduce le danze di una surrettizia provocazione jazzistica, dove strutture che fanno pensare a circolarità, angolature o segmentazioni, sono oggetto di una rappresentazione che non ha paura di sfidare quanto passa per l’emotività della musica. Nel quartetto di Chimaera, quattro splendidi musicisti si impegnano a ribaltare ancora una volta le regole: Signe all’alto è perfetta nel delineare le impronte di tutto il percorso ed in certi momenti caccia dal suo sax degli strepiti incredibili, ma mi sento in dovere di citare anche l’ottima trance strumentale del pianista Christian Balvig (che lavora come un Taylor miniaturizzato e sperimentale), del chitarrista Karl Bjora (che taglia le frequenze alla stregua di un Bailey o di una Halvorson), mentre il batterista Ole Mofjell capta le dissoluzioni, rimandando i ritmi punto e a capo, in ripartenza continua. Rispetto al primo lavoro degli Amoeba (trova la mia recensione qui) si spargono meno semi (non c’è poesia ed istinti canterburiani) ma si guadagna in concretezza ed umori, i quali, pur nella loro variabilità, definiscono un campo d’azione, come un goniometro che espelle sapori jazz e free jazz, linee compositive e logiche del benessere.
Lo svizzero Marco Von Orelli è uno dei trombettisti jazz più bravi in circolazione. Il suo ultimo cd, Lotus Crash, con quartetto composto da Tommy Meier (sax tenore e clarinetto basso), Luca Sisera (contrabbasso) e Sheldon Suter (batteria) è quanto di meglio potete aspettarvi dalla sua musica: è una forma di jazz che capta temi articolati, pulsazioni da intuire, che mettono assieme pezzi di un’irriducibile storia del jazz rivisitata nelle more temporali di un prossimo stile a venire; il suono pieno e rotondo della tromba di Von Orelli ti fa sentire il fiato sul collo di Chet Baker, ma lo svolgimento richiama anche le discorsività di un Lee Morgan o di un Freddie Hubbard, quando ad un certo punto, esse si confrontano il free jazz e con ciò che lascia spazio alle libere interpretazioni. In questo organico Meier risulta compositore di 3 brani e non c’è dubbio che il suo stile (più rough di Von Orelli) sia utile per perseguire certe strade; in particolare, la mancanza del pianoforte (fattore che sosteneva parecchio il precedente Blow, Strike & Touch) è soppiantata dall’impasto timbrico complessivo, fiati carichi e rudi contro ritmica compulsiva, aspetto sonoro sul quale Von Orelli lavora benissimo, calibrando i suoi interventi nell’ambito di situazioni improvvisative che si fondono come effetto della somma delle sensibilità del momento dei musicisti: Brian Morton nelle note interne subodora la vicinanza di Ornette per Meier, centra in Charlie Haden la ricorrente materia melodica e ritmica di Sisera, mentre per Suter, in mancanza di un suo riferimento, io proporrei come partenza un incrocio tra le esalazioni di Elvin Jones e le velocizzazioni di Sunny Murray. Lotus Crash mostra, perciò, un “classico” che ha voglia di stupire, come qualcuno avrà avuto modo di comprendere nelle date italiane del quartetto ad aprile scorso: non solo c’è un eccellente musicista alla tromba di cui centellinare le note, ma durante il percorso esiste in concreto la possibilità di trovare configurazioni scomode, semi-sperimentali o primitive, trattate con una sensibilità attuale, nel solco di un avvicinamento al modo di mettere assieme jazz e composizione di Roscoe Mitchell, qualcosa che Marco sostiene come “open forms and hidden composition“.
Nell’eclettico cammino del percussionista Michele Rabbia assume un peso sempre più evidente il tema del “subsonico”. Sebbene nella fisica il termine abbia formalmente un significato relativo alla velocità del suono, nell’ambito della terminologia della musica legata ai fenomeni acustici, potrebbe essere osservato anche in altra maniera: “subsonico” è l’elevazione a potenza volumetrica dei micro-suoni o comunque di quei suoni che non mostrano uno spettro rilevante. Detto in parole povere, “subsonico” è quel tastino dell’amplificatore che consente di ascoltare le frequenze musicali in modo perfetto nonostante il basso volume. Quando non preso dalle collaterali attività di batterista jazz o regolatore percussivo di formazioni jazzistiche od improvvisative, Rabbia si proietta in una prospettiva che deve molto ben volere, in cui l’improvvisazione è certamente l’elemento portante, che dà origine al tutto, ma non esaustivo rispetto ai risultati che si vogliono ottenere: [so-nò-ro] segue l’ingegnosità del bellissimo Dokumenta sonum (trova qui la mia recensione), dove stavolta il risultato è conseguito attraverso la collaborazione di Ingar Zach, percussionista norvegese che incrocia molta sonicità trattata anche con metodi compositivi; assieme impostano un set di vibrazioni, oggetti che risuonano in vario modo a contatto con le superfici percussive e Zach crea degli effetti di live electronics. Il sonoro ricavato ha del portento, perché riesce innanzitutto a creare una trama, e poi convince nel condensare un pensiero lungo secoli: suscita nell’ascoltatore una sintesi, quella della forza ancestrale di tamburi, sonagli o campane e della psicosi tecnologica attuale, una presunta algida sensazione sonora. La vitalità di quanto si ascolta sta nell’aver architettato proprio un progetto subsonico esteso, per suoni che senza adeguato vigore ed amplificazione non sarebbero forse nemmeno udibili. In [so-nò-ro] spazio e materia sembrano congiungersi ed è vero che alla fine, per via delle dinamiche gestuali e degli interventi dei due musicisti, la conclusione potrebbe essere quello di presenziare un laboratorio che fabbrica nuovi suoni.