Deterritorializzazioni, instabilità, rizomi e richiami marini

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foto intangible arts, Elliott Sharp, .an amazing solo set at Velvet Lounge, Washington DC. 28 march 08. Part of the Spontaneous Infinity festival of improvised music. https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/. No change was made

Elliott Sharp & Sergio Sorrentino:  creare la deterritorializzazione  musicale.

Dobbiamo ringraziare la piccola etichetta italiana Ants Records per aver immortalato l’incontro tra i chitarristi Elliot Sharp e Sergio Sorrentino. Sharp mantiene il suo spirito anarchico e di difficile inquadramento fin dai suoi esordi. In gioventù studia con Morton Feldman e Roswell Rudd: dal primo ha fatto propria la radicalità musicale, con il suo approccio aleatorio e indeterministico, l’improvvisazione e l’amore per il jazz li ha mutuati dal secondo. Sharp contribuisce con due tracce Hudson River Nr. 6 scritta nel 1974 e Liquidity del 2011. Gli altri due brani sono a nome di entrambi i musicisti. La complementarietà dei due approcci è evidente: Sharp inserisce la sua matrice rock/jazz alternando con interventi estemporanei, come ricorda il chitarrista americano nelle note di copertina: “[…] Music strictly determined in sound and time is well presented in traditional and common Western musical manuscript. Other musics require a visualization that reflects heir inner workings: perhaps non-linear and tangential, governed by other parameters than harmony and melody, suggesting structures more conceptual or algorithmic than architectural. Graphic scores at their lowest common denominator may be seen merely as “pretty pictures” but they may also serve as highly specific catalysts to the music making…”.

Le strutture che abbracciano i due musicisti si avvicinano di più ad essere descritte da algoritmi, da strutture concettuali che abbandonano melodia e armonia. Grafici elaborati alla base di algoritmi si insediano nella partitura, lo spartito appare un vecchio strumento non più utile per raccontare l’attuale. Esasperazione strumentale, suoni parassiti, atematismo, sono solo alcune delle caratteristiche salienti. La scelta del progetto ci riporta alle parole del filosofo Gilles Deleuze: «Uno scrittore» (aggiungo io un artista in generale) «non è un uomo-scrittore, è un uomo politico, è un uomo-macchina, è un uomo sperimentale – che cessa così di essere uomo per diventare scimmia, o coleottero, cane, topo, divenire-animale, divenire-inumano[…]». Deterritorializzare significa attuare una «linea di fuga creatrice che non vuol dire null’altro che se stessa». Lo scrittore Michel Tournier ci ricorda che: «Subiamo tutti la pressione del corpo sociale che si impone su di noi, attraverso particolari stereotipi che definiscono il nostro modo di comportarci, le opinioni, fino al nostro aspetto esteriore. Il compito dei creatori è quello di resistere a questo assoggettamento per risalire la corrente e mettere in circolazione i loro propri modelli».

I brani di Sharp sono proposti vigorosamente, più che un dialogo tra i due si può parlare di una “dialettica negativa”, citando un pensatore come Theodor Adorno, in cui il rapporto dialettico tra i due musicisti non si riconcilia ma rimane irrisolto. Un progetto/incontro che tenta di far coesistere, paradossalmente, la complementarità e la sensazione di irresolutezza, sfida tormentata ma encomiabile per i due protagonisti che hanno il nostro plauso.

Dr. Bobô “Dr. Bobô”, Karonte Records 2019

Il progetto Dr Bobô si compone di Juan Saiz al flauto e sassofoni, Pedro Terán alla batteria e Sergio Di Finizio al basso elettrico. La comune predisposizione verso un atletismo di fondo, si manifesta con una attenta commistione di approccio fusion e un’anima funky che avvolge come un manto nebbioso le anime dei tre componenti. Di Finizio lascia la sua forte impronta funky con geometrie variabili e timbri rotondi e morbidi da cui si scorgono gli influssi di Jaco Pastorious, anche per l’uso del basso frettless e l’uso degli armonici artificiali (El Koko). Come in un dispositivo ben oliato Saiz si muove con feroce convinzione tra flauto, ottima gamma timbrica che si manifesta con polifonie  ed effetti percussivi, e l’uso del sassofono,  dal fraseggio veloce e dal timbro sofferente. Si nota il tentativo di accostare musica etnica, fusion, avant-jazz (forse i migliori esiti li troviamo in No me dejéis solo ed  El Koko). Terán oltre a prediligere tempi dispari e un approccio muscolare allo strumento evidenzia una curiosità per l’uso delle percussioni dal sapore latino e una ricerca coloristica (Egeo Confllictos XY, No me dejéis solo, El Koko). Un album che volutamente non si intestardisce a cercare l’equilibrio nelle singole tracce ma rincorre l’instabilità dei generi mantenendo le differenze.

ACRE, Different Constellation, Aut Records 2019: musica rizomatica.

Nuovo album per il progetto Acre, il trio di Ermanno Baron, che vede per l’occasione la presenza alla voce di Ludovica Manzo. Le costellazioni non sono altro che delle strutture per mappare le stelle, in qualche modo l’aspetto musicale qui ha a che fare con il tentativo di abbandonare il processo musicale. «La parola d’ordine, diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici” Nel rizoma non ci sono punti o posizioni, come se ne trovano in una struttura, un albero, una radice. Non ci sono che linee” «Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo tra le cose, inter-essere, intermezzo (…) muoversi tra le cose, instaurare una logica dell’E, rovesciare l’ontologia, destituire il fondamento, annullare inizio e fine». Queste le parole del filosofo Gilles Deleuze che si adattano al tentativo del trio allargato.

Fare musica significa anche creare nuovi concetti, ciò che ritroviamo nel progetto è uno sforzo continuo di divenir-minore a livello musicale. Citando ancora il pensatore francese: «Una letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore». Applicando il concetto alla musica Acre usa il linguaggio musicale corrente, in uso, come se ne fosse estraneo. La Manzo gioca con la voce accennando melodie che si ripetono (Formula) fino a creare suoni gutturali, growl, mascheramenti (ci sovvengono gli esperimenti di Cathy Berberian con Berio). Baron si muove con interventi mirati in cui improvvisazione e parti compositive   si intrecciano, vi è un uso mirato delle spazzole e degli oggetti con cui percuote, sfrega, fende, scava le pelli, provocando rumori e suoni inediti (Human’s Dilemma, Implantable Memories). Gli interventi di Boschi si sovrappongono agli interventi di Bonini in una dinamica di sovrapposizione e libertà concettuale. Un progetto che, con l’ausilio della voce, permette uno sviluppo più concreto verso uno scavo sonoro che si allontana dal jazz per approdare verso nuovi territori.

Francesco Mascio & Alberto La Neve, il richiamo del mare.

Francesco Mascio e Alberto La Neve confluiscono in un duo per omaggiare il Mar Mediterraneo. I Thàlassa Mas, progetto uscito per Manitu Records, già dal nome, tenta di incanalare suggerimenti ed influssi etnici provenienti dai paesi che si affacciano sul Mare Nostrum. Mascio si sente perfettamente a suo agio nella cosi  detta world music, termine quanto mai abusato. Si potrebbe parlare anche di etno-jazz ma qui la componente etnica è sicuramente prevalente. Dei nove brani solo due sono a nome di La Neve, i rimanenti sono a nome del chitarrista laziale e, in effetti, si coglie la preponderanza per gli influssi arabi e medio orientali ma anche la smaccata propensione al blues e alla musica fusion. Vento da Est è indicativo di quest’anima. Se la traccia Bent El Rhia (figlia del vento, il nome in arabo dell’isola di Pantelleria) contiene in potenza l’intero album, I Thàlassa Mas vede maggiormente l’impronta jazz del sassofonista e la chitarra con forti accenti blues dialogare vivacemente. Holy Woods permette di cogliere il timbro pulito, rilassato, genuino del soprano, senza rimaneggiamenti elettronici come eravamo abituati negli ultimi lavori del sassofonista cosentino. La chitarra classica leggermente riverberata si concentra su arpeggi leggeri e armoniosi. Da segnalare la traccia Cano per la presenza di Jali Babou Saho che canta e suona la kora. I sapori e le sonorità africane sono bene evidenti. Sognando un’altra Riva vede alla voce il cantante libico Esharef Ali Mhagag con il suo canto nostalgico. Un album che rincorre le atmosfere e i colori del Mar Mediterraneo.

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Nicola Barin è un appassionato di musica jazz e di cinema. Dal 2008 sino a Dicembre 2017 ha condotto il programma di musica jazz "Impulse" per l'emittente radiofonica Radio Popolare Verona. Dal 2016 conduce, per la radio web www.yastaradio.com, il programma di musica jazz "Storie di Jazz". Collabora inoltre con i magazine on-line: www.jazzconvention.net, www.distorsioni.net, www.traccedijazz.it e con la testata giornalistica www.sound36.com. Scrive inoltre per il sito della rivista musicale Jazzit, www.jazzit.it. In passato ha stilato diverse interviste per la testata giornalistica on-line Andy Magazine confluite nel progetto "My Life/My Music", curato dal critico musicale Gianmichele Taormina, che indagava i protagonisti del jazz italiano.