Arti a confronto: i VocColours al Festival Jazz Art Sengawa di Tokyo

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Non sembra affatto tramontata la pratica del canto non convenzionale nell’improvvisazione: sono piuttosto numerosi gli esempi che recentemente impongono persino una revisione del numero dei partecipanti in termini di valorizzazione della performance e della funzione sociale e creativa di essi. Dopo quasi settanta anni di circoncisioni di gesti, sperimentazioni ai limiti delle possibilità umane o fughe in fantomatiche espressioni, si scorge un cambiamento silenzioso, qualcosa che si nutre di una consapevolezza relazionale, sostituita all’individualismo o al dialogo diretto; gran parte dell’improvvisazione libera canora sta prendendo forma di gruppo, una coralità che ha avuto modo di esplicarsi attraverso le tecniche di conduzione di Butch Morris, le tavole sinottiche di Anthony Braxton e la gestualità di Walter Thompson. E’ probabilmente un’esigenza dell’oggi quella che afferma questo interesse, perché sembra che le capacità personali abbiano poco effetto se non inserite in un contesto più ampio, come se si fosse resa evidente una sintomatologia della buona società, una società che per reagire ai mali del mondo ha bisogno dell’estensione numerica; gli improvvisatori vocali dei settanta e successivi periodi hanno per trent’anni navigato in una fase “povera” della sperimentazione vocale, intesa come concentrazione delle risorse nelle possibilità riservate ai timbri singoli e alle emissioni scomposte, per poi arrivare all’interazione “ricca”, in duo, in trio, fino al quartetto o quintetto estemporaneo, senza tralasciare la relazione con l’elettronica digitale (trattata in emulazione o dialogicamente), divenuta nel frattempo alla portata economica degli improvvisatori.
Makigami Koichi fa parte di questa storia riservata ma di importanza estrema: dopo essere passato nell’anonimato del punk trasferito in Giappone in versione modificata, fu in casa Tzadik che Koichi ottenne il suo riconoscimento; un cd come Kuchinoha, totalmente performato in solitudine, fa ancora oggi il punto della situazione per tipo di tecniche estreme e creazioni utilizzate dal giapponese. Nel ragionamento fatto precedentemente Koichi ci sta dentro perfettamente, poiché ad un certo punto si è trovato persino ad essere parte attiva di un gruppo storico a cinque dell’improvvisazione libera vocale (il quintetto di Five man singing, assieme a Blonk, Dutton, Minton e Moss) e sembra non essere finita qui: nel 2017 e 2018 gli interventi al Jazz Art Sengawa di Tokyo, uno dei migliori festivals internazionali dedicati alla sperimentazione e alla musica improvvisata (dove Koichi è l’organizzatore principale), sono stati essenziali per promuovere anche moderne relazioni ed intersezioni tra arti; una delle intersezioni ha attraversato il campo poetico con un trio assieme a Rabito Harimoto (tromba e clarinetto basso) e Werner Puntigam (trombone e conch shells), in cui risultava evidente un filo conduttore, un legame tra poetica fluxus, tradizione vocale giapponese ed improvvisazione libera; l’altra intersezione invece affrontò i rapporti con le arti visive ed in particolare con il live painting di Akiko Nakayama, messo in coniugazione con alcuni strumenti e le voci dei VocColours (puoi vedere l’intera esibizione qui). Una parte di questo secondo intervento è andato a finire in un cd per la Creative Sources R., un Live in Japan sotto menzione dei VocColours & Yoichiro Kita, quest’ultimo trombettista che coadiuva il quartetto vocale invitato al festival (Kita agisce anche sul laptop).
Lo show viene tagliato in due parti, facendo leva su un paio di grandi omogeneizzazioni musicali: una è instaurata tra il quartetto e la particolare arte pittorica di Akiko Nakayama, che viene riprodotta su un grande schermo; la Nakayama lavora con una tavolozza illuminata da un proiettore che ingrandisce le forme ricavate e con fluidi aventi differenti proprietà che progressivamente vengono versati sull’impianto illuminato. Tramite una leggera mobilità della tavolozza i fluidi entrano in circolo visivo e poi, a seconda delle caratteristiche possedute, o scorrono per andare a defluire in uno scolo non visibile oppure si trattengono sulla tavolozza e vengono manipolati dalla Nakayama, la quale provvede a pungere o a dividerne il contenuto più solido; il tutto viene eseguito in real time e fornisce uno splendido quadro visivo della movimentazione, con forme ampiamente colorate che suscitano ingrandite meraviglie come in un caleidoscopico gioco di colorazione, dove artisticamente la fluidità e il riassetto delle forme è un modo di rappresentare la vita e lo scorrere dei suoi eventi. Va da sé che tale costruzione artistica comporti una direzione sonora verso suoni sottili, monocellulari, che si formano e si ripetono nella loro configurazione, che è proprio quanto i quattro cantanti dei VocColours percepiscono e cercano di integrare nella rappresentazione: completamente staccati l’uno dall’altro (cioè senza nessun apporto armonico), i quattro improvvisatori si immedesimano nella situazione diventando, attraverso le voci, anch’essi parti attive di questa simulazione e proponendo la loro decodificazione degli eventi sonori.
Un flusso acquatico, un reflusso sonoro e un verso gutturale appropriato di Brigitte aprono un riflessivo ambient sound dove Norbert simula uccelli, Iouri si inventa sfondi famelici sul registro basso e Gala, invece, è impostata su un non-sense continuamente castrato verbalmente. Pian piano la giostra di emissioni si sviluppa, con Kita che segue attentamente le evoluzioni canore, accompagnando gli scatti, rincarando le dosi sonore non appena il quartetto si ritrova sui registri straziati o nelle fasi di accrescimento della tensione. E’ straordinario quanto esce dalla voce di Zajac, Kupper, Hummel e Grankin ed è anche specificatamente rivolto all’ospitalità: sembra di entrare in un immaginario sonoro che proietta nella mente scaglie di storie infantili, dinamiche a volte impetuose a volte candide, che rispettano le fluidificazioni alle loro spalle ma anche un’impostazione tipicamente orientale, quella che si avverte nelle storie antiche giapponesi; in Live in Japan c’è un riferimento ai Yurei, i fantasmi antichi che si avvertono tramite il loro spirito, sui quali i giapponesi hanno edificato un’ampia letteratura di casi nella poesia, pittura o arti marziali, ma non si tratta di esorcismi quanto di voci in movimento e anche di corpi in movimento, accuratamente utilizzati per creare quei suoni, viaggi impensabili nell’irreale, che solo dei professionisti come i VocColours possono far scaturire nel nostro immaginario. In Live in Japan ci sono, dunque, un paio di elementi essenziali della modernità musicale, che in qualche modo costituiscono anche una novità per il quartetto residente in Germania: il primo è l’immersione in un ambient sound come già rilevato prima, curato sotto una luce specifica dell’interpretazione, l’altro è l’aspetto meditativo, una caratteristica portata nell’esibizione dopo aver succhiato velocemente linfa da abitudini e pragmatismi altrui che vogliono integrarsi nell’ampio pacchetto di anti-convenzionalità stabilito dal quartetto.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.