Indipendenze della musica con un pizzico di enigmaticità

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A proposito della fenomenologia prodotta dai rumori, Michel Serres affermava che il noise “…is where it becomes impossible to clearly differentiate one thing from another. There is only a continual movement which seems to overrun place, take up and confuse space…” (citazione di Steven D. Brown in Michel Serres: Science, Translation and the Logic of the Parasite”, 2002). In breve sostanza, il suono è capace di effettuare una vera e propria occupazione aurale che ad un certo punto si slega dal contesto: ma il senso della legatura è anche l’effetto delle articolazioni sonore dei musicisti; è probabilmente su questo punto che il What’s that noise? di Giancarlo Schiaffini e Giuseppe Giuliano, vuole offrire una chiave d’interpretazione. Questi due musicisti si mantengono purissimi, fedeli ad un periodo che ha portato delle grandi novità nel modo di far musica: Cage, l’improvvisazione romana con tanti rappresentanti che hanno girato intorno ad essa, le tecniche estese, la complessità filosofica di una nuova comunicazione, l’interferenza necessaria della politica e di uno stile di vita, sono tutti elementi che si riconoscono in quanto fatto dai due musicisti, qualcosa che oggi potrebbe apparire piuttosto demodé. Agli scettici bisognerebbe chiedere se allo stato attuale ci sono altri movimenti o modalità musicali che abbiano gli immensi risvolti di quanto è accaduto dai sessanta in poi, per almeno trent’anni e fargli ascoltare un cd come What’s that noise?, 9 brani costituiti da 6 libere improvvisazioni tra piano e trombone e 3 composizioni scritte da Giovanni Costantini, Corrado Rojac e Stanislav Makovsky, che sono il resoconto di un concerto al SonicArts tenuto presso Tor Vergata nell’aprile dello scorso anno. Un’improvvisazione mista di cacofonia e di momenti armonici casuali che si inseriscono negli sviluppi dei brani fa pensare ad una musica e ad un’arte inossidabile, come quella che probabilmente si vuol evidenziare con la cover del cd di Franz Pichler (Eisen, Lack sta per Ferro, vernice), ma ci sono dei passaggi non intenzionali che sono in grado di restituire una dialettica veramente fondamentale come in Suono Elicoidale o L’isola del giorno dopo, pezzi che si pongono come esempi di una poeticità dell’improvvisazione che non arranca di un millimetro.

Un action painting svolto da Paolo Pascolo, Stefano Giust e Arianna Ellero costituisce il contenuto di Haiku, un set improvvisativo particolarmente accattivante sin dalla copertina: ci sono due dipinti della Ellero, astratti che sembrano proporre immagini senza definizione in un’area selezionata da lunghe strisce di colore, visioni di sostegno ad un concetto vibratorio della vista che deve corrispondere a quello musicale. E a proposito di Haiku, si deve ammettere che questa vibrazione non si esaurisce nella brevità filosofica dei componimenti orientali; se volete è una trasposizione occidentale che dell’haiku ha solo la prestanza simbolica, dinamiti psicologiche del suono senza una precisa collocazione formale: Pascolo è qui apprezzabile anche al sax tenore, oltre che ai flauti (suo strumento primario), mentre Giust è instancabile cesellatore di polifonie percussive, che a tratti sono capaci di sviluppare delle fantastiche similitudini (ad un certo punto di Karumi si ascolta una sorta di meccanica che sembra rifarsi alle riparazioni di una bottegaio di scarpe). C’è una malleabilità incredibile in questa musica, una qualità che i due musicisti riescono a comunicare all’ascolto grazie alle provvidenze dell’improvvisazione libera, rifondata sull’agilità (le evoluzioni di Kireji sembrano impostare la partenza di Icaro), sul volteggio (il sax di Kigo è un tuffo nel free jazz americano dei settanta), sulla sorpresa del momento (Shiori è il pezzo più vicino al concetto letterario giapponese).

Un progetto specifico sul flauto in doppio è quello che trova spazio in Bise, cd della flautista Rosa Parlato assieme a Claire Marchal (il duo è stato chiamato Isophone). Registrato live a Lille nel 2018, si compone di 8 improvvisazioni su una gamma di flauti (flauto basso, piccolo, flauto barocco) che lavorano sul rafforzamento del dialogo come non se ne sono occupati molti flautisti nella musica contemporanea, ossia non mettere i flauti in competizione ma dargli uno spazio di coerenza entro i canali di un’improvvisazione che tende a non modificare le frequenze sonore. Non è unisono, ma eguaglianza della sensazione sonora, estensioni di due trame personalizzate che però camminano nei binari di uno stesso disegno espressivo: è come se le due flautiste si dessero la mano nel costruire segmenti real time di composizione, dettati dall’intensità e l’empatia dello scambio. Inutile rimarcare come la Parlato ponga sempre in essere progettualità intelligenti e, per quanto mi riguarda, gradevolmente inquadrate in tecniche lineari o estese che soddisfano la trasposizione immaginativa (sentire la seconda parte di Grain Blanc, che si inventa una marcetta costruita con gettate di estensioni e particolarità emissive). Bise ha allora nel suo complesso un fascino traversale, perché realizza compiutamente la definizione di isofono usata nella grammatica, ossia di parole diverse che possiedono la stessa forma fonetica; è una sinfonia esplicativa, non ufficiale, suonata su una striscia di territorio divisorio tra vita e infinito, così come paventato dalla fotografia di Patrizia Oliva in copertina.

Spesso la musica è un mezzo di descrizione della realtà, un posto che nemmeno le parole sono in grado di esprimere compiutamente. Se è vero che Charles Lindbergh diceva che “…la vita è come un paesaggio. Ci vivi in mezzo, ma puoi descriverlo solo dal punto di vista distante…“, è giocoforza pensare che la musica abbia dei poteri speciali perché smista tutte le emozioni e i sentimenti di quell’immenso paesaggio che è la vita. La confluenza in musica delle visioni ottiche, degli odori o degli aspetti figurativi di quanto ci circonda è un aspetto su quale si è lasciata alla soggettività degli ascoltatori la portata, probabilmente però potremmo essere tutti d’accordo nell’individuare in certe combinazioni sonore altrettanti specifici richiami dei sensi, così come accade in Raccolto, ultimo cd del duo Luigi Bozzolan/Eugenio Colombo. Si tratta di 7 improvvisazioni free jazz in cui si apprezza la lussuria di tanta arte del Novecento: l’impostazione di massima sulle indicazioni sonore predilige i veloci rovesci di fronte, i grappoli o le segmentazioni di note e talvolta il cluster o il pizzicato delle corde interne del piano (assieme all’accordo armonico), diventano dei parametri fondamentali su cui poggiare le trasmissioni sensitive (ciò che succede in Quasi una cerimonia o in Dalla Terra); ci sono molti elementi per affermare un carattere descrittivo della musica, memore di una società assopita ma piena di qualità, che viene comunque trattata con sindromi moderne. In Raccolto le innovazioni di Charles Ives e della sua Concord si sviluppano sulla lunghezza d’onda di un Coltrane o Coleman.

Per produrre la sua opera in maniera creativa l’artista ha bisogno di essere libero da condizionamenti o preoccupazioni che possono derivare dalla vita privata o relazionale: spesso un modo per bypassare questo problema è andare a vivere per un pò in un posto piccolissimo, poco frequentato, con grande assorbimento del fattore naturale. Quando Patrizia Oliva mi disse che si era trasferita a Celante, una frazione immersa nelle montagne del pordenonese, capivo che aveva delle grandi cose in serbo: quel posto doveva servire per metabolizzare idee nuove e l’esperienza che la cantante aveva avuto a Chicago, dove aveva composto le musiche di un film di Lori Felker, una regista sperimentale impegnata in un percorso di rielaborazione delle informazioni che riceviamo dalla vita quotidiana. Celante è diventato anche il titolo del suo nuovo cd, un cd di lied completamente distanti dalle operazioni site specific o di natura improvvisativa che la Oliva ha posto in essere nel suo percorso artistico: in Celante la sperimentazione è convogliata nella forza globale degli abbinamenti elettronici in rapporto alla sua voce, abiti indossati però con una verve poetica mai saggiata prima.
Sin dalla partenza si intuisce il desiderio di Patrizia di riprocessare i sogni, i pensieri e le frustrazioni, stringendo le forze intorno ai loops, alla sua voce e ad una documentazione filmica: Larila sfoggia un loop di un benessere incredibile e mi fa ricordare (solo per pari importanza) quell’operazione che Elvis Costello fece in When I was cruel, dove campionò la voce di Mina, facendoci capire l’utilità di un punto di vista aggiornato delle possibilità del canto; inoltre le ombre e le sovrapposizioni psicologiche delle finestre della casa di Celante emergono in un video che la Felker ha condotto per lei, ricambiando i favori. La voce della Oliva è algida ma penetrante e tutte le combinazioni trovate all’elettronica sono perfettamente allineate agli umori di quanto la Oliva vuole rappresentare: Three months è una poesia di rinascita (…birds are not a mistery anymore – this is what my mother says – myself to sets my harms – from the sleeping town the day began…), Skyline troop ci invita a guardarci intorno, ad una vita produttiva e felice (lo fa accompagnandosi con un paio di loops azzeccatissimi), Mezza stanza è un dialogo sperimentale tra dei fonemi sussurrati e un campo di registrazione tratto in natura; l’intro “ritmico” di Be at East e la voce di Patrizia sono quasi dei dolci rituali che si insinuano in maglie nuove della melodia (un incedere melodico che mi ricorda certe traiettorie dei Beatles dell’album bianco) e in un testo pieno di speranza; in Roar Myth c’è qualche reminiscenza di Annette Peacock, mentre Blue Beduin è un respiro composito che ho imparato a conoscere in certa musica rock, un ponte con furto di dettagli tra Grace Slick e Carla Bozulich; il finale di Cosa sono le nuvole, su testo di Pasolini, fa tabula rasa di tanto canto rock inutile che circola in Italia e si avvicina molto ad alcuni aspetti di operazioni similari svolte in Nord Europa da cantanti come Jenny Hval o Jessica Sligter.
Patrizia Oliva dovrebbe essere punto di riferimento per quanto riguarda le nuove collocazioni che il canto ha assunto nel nuovo secolo, quello assistito da elettronica e sfasamenti poetici, un esempio incredibile di intelligenza, bravura e crossover tra settori della musica in piena evoluzione. Io dico da tempo che Patrizia è un orgoglio nazionale.

L’improvvisazione basata su aspetti percussivi può oggi vantare più canali di discussione. Sebbene sia ancora piacevolissimo ascoltare percussionisti che sono in possesso di straordinarie capacità di inventare poliritmie libere (ciò che proviene storicamente dal free jazz e dal percussionismo occidentale), è evidente che un superamento delle normali cognizioni e dei contorni utilizzati nella costruzione dei progetti sia di fatto un processo già in atto da tempo: in Italia Dani o Saiu hanno innovato sul movimento, Rabbia ha incrociato il campionamento, Calcagnile ha integrato il suo set con una serie di dispositivi elettronici, Sanna e Salis sono andati alla ricerca dell’essenza sonora di molti oggetti, ma nessuno in Italia ha affrontato la fisicità di un reparto percussivo aggiornando consuetudini antropologiche che appartengono alla cultura enigmatica delle antiche civiltà, proponendo interattività con il disegno contemporaneo della musica. Da questo punto di vista, perciò, l’operazione di Carlo Garof, un dvd intitolato Wheel posto in ossequio ai significati della ruota di medicina dei Lakota, è importante per aprire un ulteriore corso della riflessione: l’esibizione improvvisata di Garof, quattro postazioni che riproducono le quattro cardinalità, va integrata nel più ampio spettro di effetti di luci, di ripresa video, arrangiamenti dell’ambiente sonoro (microfoni, amplificazione, pezzi di elettronica a sostegno), poiché è una rappresentazione che probabilmente non vuole porre accenti solo sul fatto spirituale o sulla comprensione di leggi cosmiche, ma è anche un modo di vivere il suono così come hanno più volte cercato di sostenere i compositori della classica. Garof ha probabilmente preso spunto dall’officina di rilevazione di Mikrophonie 1 e dai pezzi percussivi di John Cage, soprattutto la First Construction, dove il metallo delle lastre rivestiva a livello di risonanza un posto di onnipotenza, spunto che in West Garof fa diventare alchemico, in un lavoro pensato per una lastra modellata a forma umana, profilata per una vera e propria analisi sonica, una diretta avanscoperta fatta toccando il foglio in tanti modi, strapazzandone la forma, percuotendolo con differenti manovre chirurgiche con sottili battenti di ferro, molle elastiche o archetto e con l’amplificazione esponenziale che fa il resto. North lo impegna allo stesso modo di un percussionista mistico di gongs, ma davanti Garof ha un tamburo sospeso che percuote seguendo un canovaccio fisico, che si nutre delle risonanze del tipo di colpi e oggetti che vengono aggiunti intorno al tamburo (molle e catene), un fortissimo senso del rituale che precede la postazione di East, silenzio acustico riempito da un set composto di ciotole di mais, gongs e alcune strutture metalliche debitamente sfruttate nelle cavità risonanti; si termina con South, che propone una gioiosa impostazione ricavata tramite un carosello percussivo ottenuto sistemando parti interne di un rototom sui rullanti, con una grancassa modificata in metallo circolarmente costruito.

Daspo è la sigla sotto la quale si firmano i musicisti Giuseppe Pisano e Davide Palmentiero, bravissimi improvvisatori e compositori elettroacustici che nello specifico cd per Setola, dal titolo Samenreis, capitalizzano l’esperienza di un progetto partito nel 2015 dall’Olanda. In realtà, i cinque pezzi composti per Samenreis sono una parte delle collaborazioni che i due musicisti hanno attuato negli ultimi cinque anni, poiché in questa occasione si fa riferimento a “…strong gestures and contrasts between large sound masses and small elements’ interferences. However, they do not renounce to moments of “pop nuance…“; in sostanza qui siamo più vicini ad una stratificazione pianificata alla Kassel Jaeger (nella vita il musicista Francois Bonnet, musicista con cui i due italiani hanno potuto condividere il loro punto di vista) che ad un programma di libera improvvisazione elettroacustica dove la ricerca si confronta con dispositivi interattivi. Per Samenreis, dunque, bisogna compiere una valutazione sul soundscapes e la sensazione è che se dal punto di vista tecnico c’è poco da eccepire in quanto l’idea sonora si costruisce con molti elementi (da quelli manipolativi a quelli pienamente digitali), favorendo qua e là la granularità e persino l’inserzione acustica inframezzo (quella di una chitarra tipicamente rock), è anche vero che pecca di uno spazio sufficiente ampio per suoni emotivamente più adulti e catalizzatori di una visione estetica pura, che il duo ha dimostrato di saper mettere in evidenza in altre occasioni (penso per esempio al Current shape della performance chigiana).

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.