I segnali della frammentazione della musica si sono visti a corredo di una situazione storica che l’auspicava già da tempo nelle altre arti. Nella letteratura, dopo le sperimentazioni e i calligrammi di Apollinaire si arriverà ad artisti come Joe Brainard, Italo Calvino o Georges Perec per ottenere inviti più espliciti alla cultura del “frammento”, un’oggettiva esigenza creativa in cerca di ridefinizioni artistiche e sociali: dal dopo guerra, la pratica del frammentare è entrata in una nuova dimensione del pensiero artistico, condivisa anche con pericolose accelerazioni degli abusi delle prassi economiche; in verità, ciò a cui non si diede conto fu il riconoscimento di un’intensità di questi processi divisori e tanto meno uno sguardo venne dato ai risultati estraibili da essi. In mancanza di limiti, il frammentare è diventato un gioco alla portata di tutti, spesso senza senso, dove la musica ne ha fatto le spese con prodotti inutili.
Da Perec, si diceva, arriva un’apertura sociologica che è impossibile ignorare: a prescindere dall’ingegno dei mezzi (l’uso di lipogrammi, palindromi, acrostici, etc.) Perec era vittima di un intelligente rinnovo di significati, assunzioni di valore che dalla divisione e ricomposizione di lettere, parole e poi di spazi, superfici ed oggetti, ricavavano una poetica spietata fondata su osservazioni lanciate su un fondo glaciale, una parvenza descrittiva distaccata e pigra alla ricerca di verità nascoste; a Perec e alla sua politica di restrizioni del linguaggio si ispira anche gran parte della musica del compositore Vittorio Montalti (1984), con la Stradivarius che pubblica la sua prima monografia dal titolo Sotterraneo, cinque pezzi compresi tra il 2008 e il 2018, con il preminente apporto del Divertimento Ensemble diretto da Gorli.
La musica di Montalti si presenta come una splendida operazione di certificazione dei tempi attuali, trasposizione di tanta musica avvertita negli ultimi vent’anni, quella piena di deformazioni, di inserimenti improvvisi e potenti, di sketches, di movimentazione: Sotterraneo, il primo brano della raccolta, è quasi pensato con le impostazioni di un Stefan Prins, dove però l’elettronica “destabilizzante” non è manovrabile ed organizza comunque un contrasto con le esaltazioni timbriche e ritmiche degli strumenti; non ci dà spazio aurale per associarci con umori deprimenti di un sotterraneo vero, quanto invece insiste sulla sensazione dello spostamento in spazi e tale sviluppo, coerentemente infiltrato nella scrittura, ha lo stesso fascino di un pezzo di Mika Vainio o Roly Porter. Nell’idea di Montalti la divaricazione, la frammentazione, lo spostamento hanno come conseguenza la fissità subliminale, la continuità, l’adattamento corrosivo ad un’immagine che sviluppa energia cinetica aldilà della sua fisionomia originaria: un piano che sembra spaccarsi od archi che si diramano in combinazioni dalla forte presenza riproduttiva sono le armi accecanti di Ne Descendant un escalier, composizione che spinge per una “rappresentazione statica di movimento”. In Les Toits de Paris, l’intro è un’esclusiva di tecnica estensiva, qualcosa che assegna un ruolo essenziale al pianista, che deve colpire corde come se fossero molle, girare la mano in una scatola di pioli o richiamare le tonalità di un toy; arroventato progressivamente su una struttura bombastica, è un altro episodio di forti trattamenti applicati sulla strumentazione. L’avvicinamento più palese alle istanze di Perec si attua in Tentative d’épuisement, per ensemble ed elettronica, pezzo in cui la frammentazione è decisamente ampia ed evoca a seconda dei casi uno zapping televisivo, dei rospi in uno stagno, dei tegami a vapore, mezzi di una richiesta di estensione strumentale da effettuare quanto più in simbiosi con la parte elettronica. La scomposizione arriva anche nella vocalità, con l’unico pezzo per voce solista affidato al soprano Ljuba Bergamelli: Bestiaire Remix sembra a tratti un esperimento concreto, che dietro le splendide capacità della cantante nasconde un particolare anello della composizione, quello turbato dalla sperimentazione su parole, sillabe, inflessioni del canto, tecniche estensive della voce.
La monografia di Montalti è naturalmente una parte di quanto fatto a livello compositivo e l’invito è ad approfondire l’ascolto anche con quanto l’artista ha prodotto in altre dimensioni, partendo dal teatro (lo segnalai già anni fa tra i più promettenti compositori italiani, vedi qui): l’arte della frammentazione e dell’esplosione dei contenuti è qualcosa che accompagnerà pedissequamente la musica di questo secolo e non bisogna pensare che “frammentare” o “aggredire” significhi solamente constatazione di rovina: c’è un universo del sonoro che può essere realizzato, con nuova linfa dei significati, un mondo che tenendo a bada l’irruenza può ottenere consensi.
Diana Soh (1984) è una compositrice di Singapore operante in Francia e Still, yet, and again è la sua prima monografia per Stradivarius, originata da una commissione ricevuta dal Divertimento Ensemble per Rondò 2019. I 4 brani che la compongono mostrano già un’evidente caratterizzazione della musica, i cui drivers di influenza vanno trovati in specifiche allocazioni della musica, non solamente quella contemporanea: la Soh fa luce sul lessico asemantico degli strumenti, estensioni ricavate dai principi di Lachenmann e Sciarrino, porta con sé la transizione vissuta con l’improvvisazione libera e le causalità dei suoni (la cui esperienza è stata naturalmente catalizzata nello stile), poggia l’impianto della scrittura su una meccanicistica e irregolarmente ritmica disposizione degli elementi sonori. L’ascolto di Autour de moi o ancor più di Iota (composizione scritta originariamente per il Klangforum) dimostra come l’arte dell’estensione sia ancora lontana dall’aver esaurito i suoi benefici e le note interne di Pierre Rigaudiére sono eloquenti nel fornire la consapevolezza della loro presenza: tremoli linguali, overblowing, slaps, scorrimenti sulla tastiera senza pressione, corde stoppate, ricochet, etc. Qual è l’obiettivo sonoro? Le idee di Soh svegliano in me un paio di ricordi, dove uno ha a che fare con un regalo ricevuto in gioventù, un orologio con cuculo di origine svizzera che custodivo in casa appeso ad un muro e l’altro con le lezioni del mio professore di religione: è strabiliante quanto il meccanismo dell’orologio, arricchito delle sue componenti secondarie, scandisce una trama, si evolve come combinazione sonora di un sottaciuto luogo della fantasia, così come riguardo al mio insegnante ricordo la sua insistenza nel portare a ricognizione dell’analisi spirituale gli esegeti del cristianesimo e la loro idea sulla conservazione delle unità minime delle scritture, un principio ribadito persino dal Cristo, il quale ammoniva che il mondo avrebbe fatto il corso previsto e non si sarebbe persa nemmeno un iota delle leggi affidate a Mosé; nella musica di Soh questa parcellizzazione è qualcosa che viene comunicata con un istinto deformato, prossimo a leggi ricercate del rumore. In Still, yet, and again, poi, emerge anche un’altro e nuovo elemento, ossia un minuscolo riferimento armonico alla tradizione d’origine della compositrice, grazie a lastre e ad un gong thailandese che ne forniscono spunto estrattivo in una situazione di emulsione dell’apparato musicale complessivo.