Silke Eberhard Potsa Lotsa XL – Silk Songs for Space Dogs, Leo Records, 2020.
Il progetto Potsa Lotsa della sassofonista tedesca Silke Eberhard assume il nome da una composizione di Eric Dolphy contenuta nell’album Eric Dolphy & Booker Little Quintet – Memorial, registrato dal vivo al Five Spot nel 1961.
La sassofonista teutonica aveva creato i Potsa Lotsa in versione quartetto e settetto per interpretare la musica di Eric Dolphy. Con Potsa Lotsa XL il numero di componenti arriva a dieci e vede la presenza di violoncello, vibrafono, contrabbasso e batteria. Probabilmente con il settetto si conclude la ricerca musicale su Dolphy e la Eberhard si concentra su otto brani originali con uno sguardo (come sottolinea nelle note di copertina Peter Margasak) all’album Jazz Abstractions di John Lewis, Gunther Schuller e Jim Hall. Materiali del passato vengono ripresi riletti: Blue Note Records, Third Stream, avant-jazz e la consapevolezza far primeggiare un suono d’insieme.
Skeletons and Silhouetes costruisce armoniche nuance febbrili tra gli ottoni e il vibrafono. Il dialogo, impressionista e delicato, si esterna nelle seconda parte di Fünfer, Or Higher You Animals con il vibrafono in caduta libera e la dolcezza degli arrangiamenti dei fiati.
Ecstasy On Your Feet e One for Laika sono attratte dal Third Stream teorizzato da Gunther Schuller, che vede un interesse concitato verso l’inesplicabile incontro tra jazz e forme della tradizione classica contemporanea. La sassofonista d’oltralpe si diverte a giocare con atonalismo e dodecafonismo.
Un work in progress continuo e convincente che conferma alcune dichiarazioni della sassofonista:”This is just a start, and I have lots of new ideas”.
Frank Paul Schubert, Dieter Manderscheid, Martin Blume – Spindrift, Leo Records, 2020.
Tre protagonisti della scena tedesca esprimono la loro improvvisazione radicale in questo album registrato live al LOFT di Colonia. La temporalità qui si presenta come una componente essenziale, imprescindibile nell’improvvisazione radicale. Oltre un’ora di musica che manifesta la sua durata e la sua durezza: il tempo come condizione non presupponibile per il manifestarsi, per permettere lo scorrere della corrente musicale. Riprendendo il pensiero del filosofo francese Merleau-Ponty, in uno dei suoi ultimi saggi, L’occhio e lo Spirito, afferma che: “la scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle”. Come per la pittura lo stesso vale per la musica “ […] qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risveglino un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga”.
L’improvvisatore coglie le opportunità nel mondo, davanti a lui, nello strumento, l’impatto con le cose trasformano il corpo/strumento nel riverbero. L’apertura sul mondo determina la creazione di due lunghi brani, come se l’esplosione dell’incontro tra i tre musicisti e la capacità di abitare le cose stesse si facesse palpabile. Si sviluppa un discorso improntato sulla dinamica e la le timbrica. L’improvvisazione è sempre concentrata su se stessa, la violenza febbrile, l’urgenza di esprimersi è contenuta quasi imbrigliata dalla pacatezza di contrabbasso e batteria.
L’improvvisazione è un incontro fortuito tra il corpo e il mondo. Usando una bella espressione di Joachim Gasquet, amico e biografo di Paul Cézanne, a proposito della sua pittura disse: “s’aggroviglia alle radici stesse dell’essere, alla sorgente impalpabile delle sensazioni”. La vera improvvisazione dovrebbe avvicinarsi a questo concetto e Spindrift ne lambisce i contorni.
Oded Tzur – Here Be Dragons, Ecm Records 2020.
L’estetica dell’etichetta Ecm Records, che lo scorso anno ha compiuto cinquant’anni di vita, è ben precisa e riconoscibile. Apparentemente il nuovo progetto del giovane Tzur parrebbe assolutamente entro i canoni, ma ad un’analisi più approfondita scopriamo ben altro.
Il giovane sassofonista, originario di Tel Aviv ormai d’istanza a New York, sviluppa un inconsueto approccio allo strumento. Oltre a studiare direttamente con Hariprasad Chaurasia, maestro indiano del flauto bansuri, si avvicina al concetto dei Raga, tipiche strutture musicali delle musica indiana.
Le otto tracce, sette a nome di Tzur, si caratterizzano per un proprio umore, un mood particolare, anche se apparentemente il progetto parrebbe molto uniforme. Il fraseggio è cristallino, impalpabile, sorprende la capacità di mantenere un controllo perfetto del flusso d’aria anche negli scambi più veloci. Un timbro pacato e meditante che ricorda i grandi interpreti del cool jazz, ma solo apparentemente. Un approccio che amoreggia con il jazz modale. Lo accompagnano dei musicisti notevoli che si pongono in antitesi e a volte sono complementari alla sua musica.
Il pianista del quartetto Nitai Hershkovits manifesta la sua funzionalità reciproca con il sassofonista e laddove Tzur si muove con lentezza e sobrietà Hershkovits inserisce melodie impressionistiche pulite, di un gusto squisito (To Hold Your Hand, The Dream).
I tre brani denominati Miniature sono quasi l’essenza dell’album, hanno la capacità di essere piccoli abbozzi, epifanie spezzate che manifestano un’assenza, una tenace voglia di non “esserci“. La microtonalità è un’altra caratteristica che si sviluppa nell’intero progetto, che ha la sorprendente capacità di apparire estremamente immediato e diretto ma occulta sapiente finezza e ricercatezza. Lo accompagnano in maniera egregia, oltre al già citato Hershkovits, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake, un fine colorista della batteria. Da ascoltare e riascoltare con un approccio Bergsoniano.