La giovane improvvisazione italiana: Davide Rossato

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foto Davide Scandaletti - scandaPH

Il decorso generazionale della free improvisation ha spesso dimostrato come il mantenimento di alcune linee di condotta su stili, modelli interpretativi o contesti delle esibizioni, sia una regola di esistenza, quasi universalmente accettata. Inutile dire che oggi si guarda ancora alla ricchezza di pensiero di una musica rielaborata a nuovo circa sessanta anni fa, quando motivazioni politiche e sociali animavano pacchetti criptati di musica, imponendo una revisione massiccia di quanto era avvenuto prima nella storia. Per motivi conosciuti alla maggior parte dei musicisti e addetti ai lavori, oggi le ragioni politiche e sociali hanno subito uno sbiancamento consistente, tuttavia alcune caratteristiche somatiche dell’improvvisazione libera partita nei sessanta sono ancora pienamente operanti e fanno leva sulle visuali dei giovani improvvisatori, che cercano di impostare una regola di coerenza essenziale per dare un abito alla loro musica. Se ci concentriamo sui batteristi e percussionisti, possiamo notare come un gruppo di storici approcci sia in grado di contenere molte delle prerogative delle giovani generazioni: per esempio, da una parte i percussionisti inglesi (John Stevens, Eddie Prévost, Tony Oxley, Christopher Hobbs) che garantivano una piena atonalità degli interventi, dall’altra gli influssi del jazz tramite innovatori della materia come Paul Motian o i percussionisti dell’Art Ensemble of Chicago.
Per il giovanissimo Davide Rossato (1995) sembra che questo schema possa essere applicato bene, poiché si intuisce subito che il musicista veneto abbia nel suo dna quello slancio percussivo che caratterizzava i percussionisti-improvvisatori inglesi, ossia quell’andamento velocizzato ed esteso su tutti gli elementi del set (dicasi padronanza dello strumento), in grado di offrire all’ascolto un tipico suono, un “building in real time” che somiglia tanto a colui che mette su mattoncini uno sopra l’altro; d’altro canto una parte della gestualità di Rossato ricorda la ricerca timbrica che è scaturita nel mondo contemporaneo, nel jazz (la possibilità di ottenere dei ricami come fu nelle prerogative di Motian) e nei processi sonici (ambienti di stoccaggio ritualizzati che perfezionano le esibizioni catapultandoci nella darsena di un Brivido Caldo o in una giungla sonorizzata dell’Art Ensemble). In più per Rossato c’è un evidente ricerca tattile, frutto di un uso particolare dei mallets sulle superfici, del posizionamento di oggetti e cimbali sulle membrane e dell’allontanamento dallo sgabello: ad un certo punto Rossato si alza e si concentra inginocchiato sulla grancassa, ricercando manualità sonora. Le esibizioni con Massimo Falascone (vedi qui) e Davide Rinella (vedi qui) garantiscono quest’idea di movimento perpetuo su e attorno il set percussivo: Rossato si districa tra i ritmi ed una propensione ricercata dal batterista, ossia quella di poter immaginare di creare una “tastiera” mentre suona, naturalmente con bacchette, mallets o altri espedienti. Legare i toni ancor più di quanto non lo ho fatto un Oxley o un ricamo Motian style.
Rossato è parte anche di un collettivo di musicisti-improvvisatori che sta contribuendo una neonata scena improvvisativa nella zona di Rovigo: grazie all’etichetta Setola di Maiale, è stata possibile la pubblicazione di un cd come Ensemble Collettivo Crisis, che è trasposizione di un concerto tenuto ad Amburgo nel giugno del 2019 all’Art of Improvisation Festival (vedi qui uno dei trailers). Oltre a Rossato, suonano due chitarristi elettrici (Pietro Frigato e Daniel Savio) e un pianista (Marco Bussi), tutti con estese preparazioni sui loro strumenti, dove la doppia chitarra ricorda la sperimentazione fatta da Bailey per tanti anni con illustri colleghi; Live in Hamburg ha tutte le caratteristiche di una moderna seduta improvvisativa dove ritmi, melodie o dinamiche sono aldilà della convenzione sonora e dove l’espressione di gruppo prevale su quella singola, oscurando parzialmente il contributo personale. Sono le tecniche estese che guidano la performance, con una mimetizzazione sintomatica di piano e percussioni ottenuta nella percussività generale degli strumenti: clusters, catene che scivolano sulle percussioni o formazioni peculiari trovate negli interni del piano, offrono un ambiente che si accorda su una fase mentale trasversale, consentendo di avvertire un’oscurità controllata. Sulle chitarre si svolge una buona parte delle tensioni di gruppo: quando Bailey o Frith spariscono un pò, le manovre fanno affidamento alle colonie del rock, così come succede in 2 quando il fraseggio accoglie le stranezze dei grovigli di un Bevis Frond o in 4 dove si subodora la memoria del riff iniziale di Who do you love versione Quicksilver Messenger Service. Nell’evoluzione musicale di Live in Hamburg si comprende che c’è già un tessuto connettivo di ottimo livello tra i singoli, che sviluppa idee che mirano ad una totalizzazione dell’esperienza improvvisativa: la musica non è premonitrice né tanto meno è gelida, perché si veste di sostanza discorsiva, è ottima pratica estemporanea che viene a galla e che non teme di non avere empatia perché è già ben pensata e corredata di agganci a qualsiasi tipo di immissione (per genere e per modello compositivo). Da questo punto di vista, il quartetto è già pronto per approfondimenti importanti.
Rossato, che ha studiato con Calcagnile al Conservatorio di Venezia, è attualmente direttore artistico del Tempesta Jazz, un festival di musica improvvisata, la cui prima edizione avrebbe dovuto svolgersi a Noale se non ci fosse stato il Covid 19: la chiamata è per artisti innovativi, che portano il jazz e l’improvvisazione libera in territori più consoni ad un cartello di qualità e Rossato, nonostante la sua giovanissima età, si presenta già come un musicista molto sensibile ad una riorganizzazione musicale, la quale deve passare dall’educazione ed una maggiore crescita degli ascoltatori.

Come è nelle dinamiche della rubrica, ho interpellato Rossato su quanto enunciato e abbiamo discusso un pò sui principali drivers della sua musica. Qui di seguito il resoconto del nostro dialogo.

EG: Nel mio profilo ho delineato alcuni canali o modelli ispirativi che potrebbero valere nel tuo caso. Ciò che mi colpisce molto è la voglia di espansione che si nota nel tuo drumming, qualcosa che si avverte sia quando sei seduto al tuo sgabello sia quando vai a trovare suoni girando intorno al tuo set percussivo, spesso in ginocchio rivolto verso la grancassa. Quello della percezione tattile del batterista è un concetto che guadagna sempre più consenso nell’improvvisazione, sia pure con modalità differenti da batterista a batterista.  Quanto è importante la sensazione tattile nella tua musica?
DR: Lo sviluppo tattile, nel mio caso, è divenuto via via una necessità sempre maggiore. Sento il bisogno di un’espressione viscerale, dal basso, che molto spesso si esplica in una ricerca sonora espansa a tutto tondo attorno allo strumento. Credo sia un fatto di necessità interiore… toccare con mano, per me, è centrale.

EG: A che cosa può tendere il percussionista che lavora nell’improvvisazione oggi? Se escludiamo l’elettronica, un modo per agire in maniera innovativa è la fisicità del rapporto con il proprio set percussivo: in tal senso si sono spesi musicisti come Roberto Dani o Fabrizio Saiu. Cosa ne pensi di questa apertura verso una presenza scenica (anche eccessiva) che accompagna il percussionista?
DR: Oggi il ruolo del percussionista ha di certo raggiunto livelli di presenza scenica elevati, tuttavia trovo che mai più di oggi ci si debba concentrare, come ricorda il pittore Vassily Kandinsky, sulla ricerca di un “che cosa” dire, che abbia un senso ed un valore assoluto più che soffermarsi sulla forma che si adopera per esplicarlo. Secondo me, l’elettronica o la presenza scenica, devono essere intese come delle maniere subordinate alla ricerca di quel “che cosa” che fungerà da missione e “profezia” per le persone in ascolto. Usare o inventare estetiche contemporanee è necessario, ma mai dimenticare dov’è l’obiettivo.

EG: Al momento la tua estetica si percepisce come espressione di una situazione semiotica. Ci sono configurazioni miste che fanno pensare a più fattori: poliritmie che impongono un indietreggiamento nel passato (con un valore sociale e politico decisamente diverso), patterns e passaggi sonici che intendono evocare un minimo di rituale (l’ancestralità ha un interesse mai domo nell’arte); questi riferimenti sono certamente utili per acclarare la bontà di una visione coltivata negli anni sessanta e settanta e che oggi va riordinata secondo le situazioni che viviamo. Ma c’è qualcos’altro che vuole evidenziare la tua musica e che si collega con la società e la politica attuale dei musicisti?
DR: La mia musica ed estetica vogliono tendere al silenzio. Un silenzio in grado di toccare e cambiare le persone. Trovo che l’improvvisazione sia una delle vie più alte, nobili ed oneste di comunicazione. Quello che provo ad esprimere è la necessità di offrire una chance alle persone, un’ alternativa; una via per uscire dal delirio del nostro tempo, dai suoi ritmi innaturali. Vuol essere un’ isola felice, non solo una rappresentazione della realtà; una maniera per fare un viaggio dentro se stessi, per conoscersi e prendersi il giusto tempo per ascoltarsi e mettere a fuoco le vie che dentro di noi chiedono di essere battute.

EG: Ti dividi tra una scena improvvisativa nel rodigino, in cui i musicisti impegnati in essa mi sembrano già avere le carte in regola per fare ottimi salti di qualità, ed una nel veneziano come principale vettore organizzativo. Il cd dell’Ensemble Collettivo Crisis paga anche un debito ad un vostro gancio ad Amburgo, il sassofonista Vlatko Kukan, che ricordo faceva parte del Creative Music Ensemble Hamburg, quando suonava il soprano con Anthony Braxton tra l’89 e il ’91. Ci sono altri legami con lui, anche in termini stilistici, in tema di rapporti tra composizione ed improvvisazione?
DR: A dire il vero sto cercando di implementare una scena improvvisativa soprattutto nel veneziano. Tuttavia, con la proficua conoscenza di Pietro Frigato e Marco Bussi, miei colleghi di Rovigo, abbiamo iniziato questo bel progetto musicale e concertistico insieme, che vede una sinergia diretta tra i due capoluoghi di provincia. Kukan è per me un mentore, un amico, nonché una grande fonte di ispirazione e cambiamento. Musicalmente penso che la cosa che ci colleghi sia la grande profondità emotiva e spirituale che raggiungiamo durante le performances. Purtroppo, a causa del Covid 19, a marzo siamo stati costretti ad annullare un paio di eventi che ci vedevano coinvolti in un progetto in duo. Sicuramente avremo modo di recuperare e magari di incidere un album di debutto insieme nei prossimi mesi.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.