Atteggiamenti coerenti e contesti in movimento

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In giro per l’Italia abbiamo splendidi musicisti che vivono una situazione al confine, da una parte impossibilitati nell’ottenere un riconoscimento diretto presso il grande pubblico per via dello strumento e del fatto di lasciare la scena spesso ad altri musicisti, dall’altra isolati nel fornire nuovi spunti musicali che restano nella frequentazione di troppa poca gente (es. l’improvvisazione). Prendete uno come Donatello Pisanello, studioso della musica popolare salentina, suonatore della fisarmonica diatonica, cultore della musica popolare variamente configurata (persino un binomio con la musica del Mali) e chitarrista elettrico sperimentatore di loops; se è vero che spesso ciò che sorregge la buona musica è un’idea sottostante, allora Pisanello può vantarsi di aver proposto un atteggiamento coerentemente adeguato a temi e ricerche che propongono un proprio linguaggio. In Ops, lavoro di instant composition effettuato sull’organetto diatonico a 8 chiavi di basso, c’è tutta una filosofia che si spalma sulla musica e che non si trova tanto in giro: 12 pezzi che parlano dell’intuizione di Pisanello di trovare assonanze tra le ripetizioni e i toni sostenuti che ruotano ai giri tipici del minimalismo e alla sostanza melodico-ritmica della danza salentina. Sono ops che beneficiano di un’ottima registrazione, che aumenta ciò che può essere una spazializzazione musicale naturale, con i suoni che emergono in tutta la loro pastosità e definizione armonica; Pisanello calibra i tempi d’intervento, cerca di tirare fuori toni non usuali dell’organetto, lavorando benissimo anche con la bitonalità dei bassi, inventa marcette surreali e incornicia un eclatante lavoro con molte soluzioni e movimentazioni sulle tastiere che definiscono anche frammentazioni della materia popolare. Conscio del fatto che sia impossibile trovare nel mondo un’equivalente di Pisanello, devo dire che Ops (sentire a mò d’esempio la trance creata nel terzo ops) è anche speciale nella sua formazione: da un piccoletto strumento si eleva un suono grandissimo, fiero e comunicativo allo stesso tempo (vedi qui il video ops 11 caricato dall’artista su youtube).

The imaginary voyage, un film del 1923 di René Clair, è l’ispirazione di Reality in illusion, cd del sassofonista Roger Rota unito in quartetto con Francesco Chiapperini a sax alto e clarinetto, Marco Colonna al clarinetto basso e Stefano Grasso alla batteria. Il film di Clair fu un insuccesso ai suoi tempi, specie se confrontato con pellicole come Entr’acte, che hanno invece un profondo sfondo dadaista (anzi si può parlare di Clair come di un precursore in tal senso), ma il regista francese aveva in mente altri modelli per quella pellicola, ossia i films di Meliés e Chaplin. Quello che si apprezzava in The imaginary voyage era un riguardo per la storia e per il tentativo di lasciare alle immagini il potere di costruire appendici in nome di una volontà ben presente nella cinematografia di tutti i tempi, ossia quella di ottenere dai films degli strumenti per creare sogni; in The imaginary voyage colpiscono i luoghi in cui il film trasporta e soprattutto la discreta relazione tra i due personaggi principali della storia d’amore: Jean e Lucy; sono questi gli elementi che Rota e il suo quartetto cercano di estrapolare e portare in musica.
Reality in illusion è perciò un disco riuscito perché si rimette alla creatività in itinere degli artisti (la cui bravura è ormai acclarata), con intromissioni mature che non permettono di pensare che sia un disco esclusivamente di jazz; ci sono parti concordate ed un’idea di massima nel condurre l’improvvisazione verso un tono che sta tra il gaudio e la preoccupazione e poi, molta linfa elettronica che crea lo sfondo di momenti più teneri (quelli rivolti ai due protagonisti del film) e momenti più surreali, in cui il loop trovato si confronta con tecniche estese, utilizzate spesso in contemporanea dagli artisti (episodi di “Kaoss”). Situazioni simulatorie che accompagnano egregiamente l’immaginazione e ci immergono in un mondo di fantastica sobrietà.

Mia Zabelka è una violinista, compositrice ed improvvisatrice austriaca, a cui molta stampa specializzata ha dato credito per via di alcune nuove definizioni: Zabelka ha parlato di “automatic playing” per indicare processi dell’improvvisazione di tipo organico, che sfruttano tutte le possibilità offerte dalle tecniche e dalle strutture (una sorta di improvvisazione totale che prende in considerazione capacità del musicista, impianti che usa e metodi di qualsiasi provenienza); lo scopo è ottenere l’equivalente di un discorso, considerando il corpo come un conduttore dell’espressione, quindi anche attraverso una gestualità pronunciata. Molto interessante è anche il concetto di “cellular resonance“, che ha curato tramite il violino elettrificato e l’elettronica. La Zabelka è una studiosa della materia, mentalmente molto vicina alla Oliveros o a Niblock da una parte e a Kowald dall’altra.
Myasmo, suo ultimo cd per Setola, la cattura in quattro esibizioni europee tra il 2018 e il 2019, dove si tenta di offrire una prospettiva della propria musica in solo violino acustico: ciò che si percepisce benissimo è che la Zabelka fornisce una personale forma di arte, apparentemente povera, costruita su una relazione fortissima del fraseggio, che deve ricomporre la dinamica del “discorso” umano; ci sono i suoni del violino che catturano la vivacità e l’esuberanza di una dissertazione, la vocalità scomposta e scenica che interpreta e rafforza le specificità del panegirico, c’è lo spazio circostante a cui si tenta di dare un valore secondo le possibilità conosciute nell’improvvisazione libera. Ogni città delle 4 in cui l’austriaca si è esibita (London, Le Havre, Vienna, Tonsberg), fa parte di un puzzle che si compone per ottenere un risultato complessivo: completamenti di tecniche e visuali che ribadiscono un concetto fondamentale e paradossalmente anacronistico in questo momento storico, ossia quello della promozione delle libertà creative come strumento indispensabile di continuazione dei percorsi della musica e di un linguaggio simbolico della vita, attempata o aggressiva che sia. Legno intarsiato, scavi della materia vivente.

Nel trio Jars (Henry Marić, Boris Janje e Stefano Giust) si tocca con mano il senso cinetico dell’improvvisazione libera. E’ uno straordinario attraversamento psicologico della free improvisation che nel caso dei Jars si compie su animali ed eventi. Dai titoli in croato si capisce come siano interessati da una parte formiche, rane, gatti ed elefanti e dall’altra luoghi di vita comune come cucine o autobus, in un modo che svela le capacità sensoriali dei musicisti: Giust, con un set di batteria e dei cimbali, costruisce sfondi incredibilmente veritieri e affascinanti, grazie ad una velocissima gestione dei movimenti; Marić al clarinetto (anche basso) mette in moto una politica del soffio estemporaneo (poiché dal suo strumento è aria che esce piuttosto che note) ed usa le preparazioni su una chitarra elettrica, che si frammenta e si strappa adeguandosi al corpo sonoro; Janje usa alternativamente tecniche di pizzicato o di utilizzo dell’arco per favorire l’idea della movimentazione; in definitiva, c’è un mondo di suoni e rumori che si proietta per erigere e spiegare situazioni weird, che aprono a scenari speciali dell’immaginazione, di quelli che farebbero piacere a gente come Lorenz o Pavlov o a coloro che si occupano delle neuroscienze e dei filtri applicabili al flusso dei pensieri. Significa sognare paradossi ad occhi aperti, mentre si sta in giardino durante una giornata estiva.

Il trio Cene Resnik, Giovanni Maier e Stefano Giust (rispettivamente sax tenore e soprano, violoncello e batteria con cimbali) è un connubio sperimentato in più sedute al Dobialab; la registrazione che ne è venuta fuori ha dato origine a Through Eons to now, cd pubblicato come Ombak Trio, che riproduce una sessione di libera improvvisazione. Dall’aspetto ontologicamente immerso nelle traiettorie di tensione e rilassamento tipiche della free improvisation, Through Eons to now ha un profilo da officina improvvisativa, 6 pezzi che vedono Giust scolpire timbri e ritmiche al pari di un calzolaio, Resnik lavorare a formule di sviluppo che sono ricche della sintassi jazzistica (con minore enfasi di evidenze ruvide) e Maier che agisce da detonatore armonico, con tante manovre sul violoncello da sembrare fuori contesto se le guardassimo dal punto di vista della teoria musicale. E’ musica che sortisce l’effetto di maturare pensieri trasversali, qualcosa che è profondamente internato nell’animo dei musicisti, una pelle quasi noir che la titolazione sembra confermare, spingendoci a pensare che ci sia una logica deleuziana dentro, dove i “contesti cambiano rapidamente” o “si guarda sotto il tappeto”. Quella di Through Eons to now è musica valida per ogni tempo, perché forte di un pensiero politico che si rende conto che qualsiasi, anche impercettibile cambiamento dei tempi, non cambia la nostra natura di uomini tendenzialmente portati verso la libertà e verso il miglioramento dell’instabile, risaputa e precaria condizione della vita.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.