Quartetti di improvvisazione non focalizzata

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'Cross hatch' pattern in the cliff face at Newgale beach, Source From geograph.org.uk Author Andy F, Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic license.

La storica etichetta Hathut Records, fondata nel 1974 da Werner Xavier Uehlinge, ha avviato nel 2019 la serie “ezz-thetics” in omaggio al famoso album di George Russell.
Il sassofonista Noah Kaplan e il suo quartetto (Joe Morris alla chitarra, Giacomo Merega al basso elettrico e Jason Nazary alla batteria e elettronica) pubblicano il loro terzo progetto per la label svizzera, dal titolo Out of the Hole.
L’improvvisazione radicale qui si accosta combinando tecnica e gesto: il sassofono di Kaplan sfoca la tonalità. Il suo approccio è microtonale. «La musica micro-tonale? E’ quella con le note tra le fessure del pianoforte», questa è la calzante definizione del compositore americano Charles Ives. The New Grove Dictionary of Music and Musicians la definisce come: «Any musical interval or difference of pitch distinctly smaller than a semitone. Some writers restrict the term to quantities of less than half a semitone». La musica qui in opera eccede la tonalità, in breve si tratta di vivere, abitare nello scarto tra le note, tra le pieghe dell’intonazione, o piegare a proprio vantaggio il sistema tonale.
Ascoltare un classico standard come Stella By Starlight ci offre un esempio di ciò che resta della struttura del brano, gli accordi sembrano liquefarsi, cadere nel vuoto, la chitarra  procede con una libertà coadiuvata dal basso che non accompagna ma si affianca.
Aprosexia rispetta il titolo del brano, una perdita di attenzione totale. Nazary ricerca inediti suoni dal suo set di percussioni: una batteria che perde la sua organicità. L’uso delle spazzole in Out Of The Hole è spiazzante, ricorda il battere delle ali di un insetto, quasi ingabbiato.
Il disco si presenta come un ripensamento, un’interpretazione, a tratti aspra, che si muove tra free jazz e improvvisazione radicale, con una sublime sensazione di sbandamento: un naufragio dell’anima.

Il violino nel mondo del jazz ha avuto una genesi tortuosa e la sua affermazione è giunta con l’elettrificazione. La musicista svizzera Laura Schuler produce un pregevole album per Veto R. dal titolo Metamorphosis, accompagnata dal suo quartetto: Philipp Gropper al sassofono tenore, Hanspeter Pfammatter ai sintetizzatori e Lionel Friedli alla batteria.
L’interesse principale è quello di raccontarci delle storie, dei lunghi racconti complessi, saturi di concetti ben definiti; si intersecano in questa ricerca l’amore per il jazz, l’elettronica e l’improvvisazione. Sarebbe riduttivo classificare questo progetto come creative music, avant-jazz… Il colore timbrico suggerisce atmosfere fusion, sopratutto nell’uso delle percussioni e dei sintetizzatori (che suppliscono anche l’assenza del basso) ma il violino, ad esempio in Dancing In The Stratosphere, interviene prepotentemente variando la direzione verso l’improvvisazione più libera. Usando una metafora pittorica sintetizzatori e batteria stendono sulla tela musicale una campitura lineare, omogenea, (come i quadri di Mark Rothko), successivamente violino e sassofono agiscono da propulsore per tutti gli altri, operando dei tagli, delle incursioni inattese (similmente al “dripping” nelle opere di Jackson Pollock). L’imprevedibilità ritmica cosi come l’improvvisazione si manifestano prepotentemente e in maniera fulminea (in lauraschulerquartet – Metamorphosis e in Z).
La Schuler fa confluire le sue poliedriche esperienze musicali in questo disco che sorprende e che si adatta perfettamente alle definizione di Opera Aperta sviluppata da Umberto Eco nell’omonimo testo: “L’opera si propone come una struttura aperta che riproduce l’ambiguità dello stesso nostro essere-nel-mondo: quale almeno ce lo descrive la scienza, la filosofia, la psicologia, la sociologia.

Avevamo già incontrato il pianista romano Giovanni Di Domenico recensendo il progetto in duo con Alexandra Grimal. Come già ricordato da Ettore Garzia su queste pagine, Di Domenico è un “musicista ad ampio spettro”. La sua proteiforme capacità di evolversi è qualcosa di stupefacente. Qui lo troviamo accompagnato dal gruppo GOING: Pak Yan Lau allo Hohner Pianet e sintetizzatori e João Lobo e Mathieu Calleja alla batteria, per un nuovo album autoprodotto dal titolo Going Commando.
Il versante sonoro è prettamente elettronico con Di Domenico al Fender Rhodes e sintetizzatori e Pak Yan Lau ad un piano elettromeccanico dal timbro inconfondibile:  voluto, senza dubbio, il riecheggiare di sonorità e strumenti utilizzati prevalentemente nel progressive rock di matrice inglese degli anni settanta.
Due solo tracce, scritte dal pianista della durata di poco più di 20 minuti, una fusione di spunti e timbri del passato che si accordano con la ritmica ripetitiva e ossessiva: un beat semplice ed efficace. All’artista interessa registrare il “processo” musicale nel suo di(s)farsi.
Album ipnotico, una musica apparentemente d’ambiente che però crea apprensione: un ascolto in favore di una salutare e corroborante “altra dimensione” di Marcusiana memoria.

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Nicola Barin è un appassionato di musica jazz e di cinema. Dal 2008 sino a Dicembre 2017 ha condotto il programma di musica jazz "Impulse" per l'emittente radiofonica Radio Popolare Verona. Dal 2016 conduce, per la radio web www.yastaradio.com, il programma di musica jazz "Storie di Jazz". Collabora inoltre con i magazine on-line: www.jazzconvention.net, www.distorsioni.net, www.traccedijazz.it e con la testata giornalistica www.sound36.com. Scrive inoltre per il sito della rivista musicale Jazzit, www.jazzit.it. In passato ha stilato diverse interviste per la testata giornalistica on-line Andy Magazine confluite nel progetto "My Life/My Music", curato dal critico musicale Gianmichele Taormina, che indagava i protagonisti del jazz italiano.