Overview on Setola di Maiale new releases.
Nell’ambito della grande scelta che si presenta nel campo dei sintetizzatori ogni musicista compie un percorso di adattamento ai propri obiettivi di suono: ci sono oggi sintetizzatori in grado di soddisfare moltissime esigenze ma è scontato che il compito si fa più difficile per le preferenze degli improvvisatori o per coloro che hanno l’esigenza di tirar fuori dal synth sonorità non in linea con le tendenze dei mercati discografici. In A day in the leap, Thollem McDonas si crogiola con la novità del Korg Wavestate, sfruttando un’idea da implementare nello strumento che non passa certamente dai gusti di musicisti ambient, modern classical od operanti nei vari rivoli della dance attuale; l’idea viene dal suo status di musicista che si trova ogni giorno a dover affrontare dei “salti” rischiosi nell’economia della propria musica e del gradimento (la copertina premedita gli eventi, evidenziando una foto di un percorso a mare dove altro non si può fare che tuffarsi); come afferma Thollem, i suoni scelti sul Korg Wavestate si indirizzano su quattro versanti, ossia un piano acustico che lavora in modalità distopica, due strati di percussioni utilizzati sotto forma di manipolazioni volutamente regolate sul timbro di funzionamento di un apparato informatico (che in alcuni momenti è timbricamente molto simile a quello di una percussione a mallets) e un’orchestra sintetica la cui percezione è avvertita nel finale quando compare una “tromba”. Thollem indica un percorso creativo che diverte meno di quanto l’artista cerca di far passare nella sua introduzione al lavoro: la contrapposizione tra l’inquartato volteggio pianistico e le modificazioni percussive che lasciano un’aria frivola ma familiare, è un perfetto smistamento del principio di equilibrio tra intelligenza e presa in carico delle complessità da una parte e capacità di non prendersi mai troppo sul serio dall’altra. In A day in the leap scorre ancora una volta la linfa vitale di un musicista che ha una visione non incartata della musica, dove le dimensioni giuste si trovano mettendo in fase il proprio pensiero con la ricerca dei suoni adatti ad alimentare quel pensiero stesso: dal Korg Wavestate, Thollem estrae suoni e crea manufatti elettronici che altri avrebbero scartato, dando ad essi una precisa e significativa collocazione, quella di un “after the leap” che viene presuntivamente immaginato come un luogo di sorprese e di realtà che funzionano in modo differente dall’ordinario.
Per Strange Memories di Guillame Gargaud si fanno considerazioni sul ruolo del chitarrista acustico dedito all’improvvisazione. E’ un solo album, naturalmente, e non è nemmeno il primo: nel 2008 Gargaud registrò infatti Le Lieu, un ottimo lavoro suonato con la chitarra preparata, controllata con un personal computer, uno scavo che entrava quasi in sintonia con le tendenza di Loscil e dei musicisti di post-rock; Gargaud si ripetette successivamente con Here, con She e con Lost chords, tutti cds dove la funzione del chitarrista non veniva vista come quella di un virtuoso, quanto invece come quella di un cesellatore di suoni, di un riempitore di spazi. La free improvisation per Gargaud è arrivata dopo il 2013 con un paio di albums alla corte di Ernesto Rodrigues, con due pezzi raccolti in Solo e un album di Miniatures dal carattere riflessivo e rilassato; per Strange Memories si può senz’altro parlare del lavoro della maturità (se restiamo attaccati alla libera improvvisazione) poiché le intuizioni di Solo e Miniatures vengono qui sviluppate in tutta la loro forza. Si scopre, così, un chitarrista che suona meravigliosamente l’acustica, lavorando ad una condensazione degli umori che è conseguenza delle tecniche utilizzate: atonalità, linee melodiche complesse e nella tradizione di un chitarrista contemporaneo, velocizzazioni profuse su corde stoppate, ricerca di contrappunti, glissando posti come trama, ricerca di suoni sul ponte, etc.
Strange Memories fa parte di quella categoria di lavori che sfruttano a meraviglia le caratteristiche tecniche ed emotive dello strumento, quanto si può percepire nelle vibrazioni delle corde e nella subdola alterità dei fraseggi; poi, quanto a Gargaud, penso che sia assolutamente arrivato il momento di dargli più considerazione (qui puoi trovare la sua pagina bandcamp con i lavori solistici che sono assolutamente da ascoltare).
Decifrare la scrittura dei geroglifici egiziani significava scoprire ciò che era dietro una minimale struttura sonora: molti dei simboli di quel popolo erano espressione di un linguaggio fonetico spesso combinazione di più suoni e di un’idea interpretativa. A distanza di tanto tempo dalla loro venuta non sembrano mai scadere i tentativi di costruire immaginazione moderna sfruttando quel sistema e le relazioni imbastite da JJ Duerinckx e Adrian Northover (rispettivamente sax sopranino e sax alto) nel loro cd Hearoglyphics, guidano alla consapevolezza di un tempo in cui il canto e la ruralità musicale (quella di sonagli, bacchette, rudimentali flauti, clarinetti, arpe e tanto altro del mondo egizio) diventarono importantissimi veicoli per una buona tenuta della società e per una adeguata modalità di espressione degli individui. Qual è il rapporto insinuato da Duerinckx e Northover? Ascoltando Hearoglyphics si intuisce come l’incontro di due soprani o del sopranino con l’alto, non è visto nell’ottica di una “battaglia” come è capitato nella free improvisation del passato, ma piuttosto come un’azione di concerto che mira a definire un clima costante su certe frequenze: nell’inoltrarsi in ciò che si sostanzia in una benefica e tenera esposizione di sonorità ottenute spingendosi in determinate tecniche estensive (colpi di lingua, multifonia e soprattutto alimentazione dei canali d’aria dei sassofoni tramite respirazione e insufflazione al limite dell’udibilità), si trova un panorama espressivo delizioso, sempre che siate abituati a decodificare le segmentazioni e le rivelazioni di una scoperta attuata negli anfratti di un soprano. I due sassofonisti non propongono l’elasticità di un Lacy o di un Coxhill, né le frastagliate configurazioni sonore di uno Sjostrom e un labile ed occasionale riferimento (se esiste) è a Evan Parker, soprattutto quello del primo periodo dove le linee del sax producevano lo stesso effetto di una seggiola che viene spostata: probabilmente c’è una congiunzione che deriva dalla musica contemporanea, dove negli ultimi vent’anni si sta spingendo molto sulla creazioni di mondi sonori alternativi, mondi di sovrapposizione che sono nelle potenzialità di improvvisatori come Duerinckx e Northover, che sperimentano in maniera proficua e con la loro sensibilità al pari di tanti preparatissimi sassofonisti classici.
Andrea Dicò e Francesco Carbone ritornano con un nuovo cd dal titolo Take the long way home. Ammetto di aver subito pensato all’omonimo brano dei Supertramp e di aver cercato delle confluenze testuali e non musicali, dato che quest’ultime erano impossibili da impostare in partenza, un’iniziativa comunque di scarso successo che vi sconsiglio fin da ora di fare; piuttosto, fossi in voi, cercherei una logica su una surreale linea di condotta espressa dalla titolazione. Quello dei DC è in definitiva improvvisazione iniettata in un anatema post-rock, roba che si sviluppa dalle parti di gente come Godspeed You! Black Emperor per frequenze emotive, anche se l’area va poi analiticamente esaminata: in tal modo vi accorgete che i due musicisti italiani si servono di strumenti specifici che si aggiungono all’impianto chitarristico e alla sostanza tessurale che solitamente avvolge la musica di un gruppo post-rock: nei 48 minuti della suite di Take the long way home ci sono frammenti musicali appositamente incastrati nello sviluppo e che provengono da effetti evidentemente sperimentati in prova; si tratta di microsonorità da individuare con un ascolto attento, introdotte nell’isolazionismo risonante del brano, che derivano da vibratori percussivi, indurimenti noise, birds call, toys o archetto. Nella consapevolezza che questi espedienti aumentano la qualità del prodotto strumentale, mi sembra che sia doveroso dare una spiegazione anche del perché si sente il bisogno di “prendere una lunga via per tornare a casa”, una sentenza che io reputo non sia solo costitutiva di un viaggio musicale, qualcosa in cui poter fondere la prospettiva immaginativa dell’ascolto, ma anche politica, perché probabilmente in quella frase si vuole sottolineare l’incoerenza e la sofferenza che viene giornalmente vissuta dall’umanità in condizioni variabili. Faccio un’ipotesi e dati gli strumenti tecnologici utilizzati dai due musicisti, il lungo percorso di ritorno potrebbe condurre agli anni ottanta, vero punto di svolta della politica internazionale: l’intro di Prospering può essere un esempio di tale arrivo, perché la vibrazione automatica sulla percussione si incontra con simbiosi chitarristiche che portano direttamente alla memoria la chitarra di The Edge e la costellazione mentale e strumentale di The Unforgettable fire. Alla fine, allora, Take the long way home rivela le sue caratteristiche di musica complessa e convincente.
Un trio portoricano formato da Gabriel Vicéns alla chitarra elettrica, Jonathan Suazo al sassofono alto e Leonardo Osuna alla batteria, per un cd che mi pare di capire costituisca l’esordio discografico del No Base Trio. Caratteristica della formazione è l’ampiezza delle vedute e dei riferimenti musicali che vengono titolati in EXT numerati: il primo di loro sembra un outtake dei Soft Machine, il secondo invece si sviluppa seguendo una linea di basso blues che mi ricorda i Cream più sperimentali, il quarto, melodico, comincia a formare sembianze di jazz, il quinto entra nell’improvvisazione con un’attitudine quasi brechtiana, il sesto è una mistura tra isolazionismo e postumi di psichedelia chitarristica, il settimo è una zanzara musicale che sfrutta un giro di elettronica dei settanta e un infuocato set di free jazz, l’otto punta al timbro, alle sonorità ricercate e a uno sviluppo ipnagogico della musica. Va da sé che No base Trio è spiazzante perché non ti dice mai dove sei musicalmente, ma ha anche un profondo senso dei legami che l’improvvisazione può filtrare attraverso generi diversi, qualcosa che recupera anche una certa melodicità come qualità non certo indistintamente disponibile.
Un singolare incontro tra il Kammermusik trio (Giancarlo Schiaffini, Luca Tilli e Enrico De Fabritiis) e Jørgen Teller (chitarra elettrica) fornisce un elemento di intersezione tra due concezioni musicali apparentemente non affini, ossia da una parte un trio camerale votato totalmente all’improvvisazione libera, dall’altra un chitarrista esploratore di suoni, delle psicosi elettroacustiche e delle incoerenze sonore di gruppo. Schiaffini e Teller si ritrovano dopo anni in studio in Italia, per registrare musica che vuole continuare l’approfondimento su una moderna musica da camera disponibile per l’improvvisazione: in questa incisione ciò che viene creato sono vere e proprie spore, riproduzioni continue di suoni (ottenuti anche con estensioni) che tendono a generare un ambiente dialogico e di partecipazione in maniera continuativa. Le stimmate di un trio da camera distraente sono particolarmente presenti nella sonata a 5 movimenti di Kammersuite, che presenta un profilo più austero pur dando la possibilità ai musicisti di esondare in oggetti musicali misconosciuti, frutto della casualità degli interventi che, ad un certo punto, tengono in mente solo un prosaico ambiente di rappresentazione, come in una “recitazione” prefissata ad un scopo. Schiaffini e i suoi più stretti collaboratori stanno da tempo insistendo su queste innovative forme di improvvisazione che sembrano avere poco rispetto per i contenuti emotivi della musica: la realtà è che al solito bisognerebbe abituarsi alle anticonvenzionalità della musica, lasciando che i parametri musicali vengano abusati e corrosi. Se questo vi riesce, capirete che tesori si producono in questi casi.
Una nuova registrazione del Trio Eskimo dal titolo Fumàna, in cui viene ospitato Luca Perciballi alla chitarra, arricchisce il catalogo già molto vario della Setola: composto dai due poeti Enrico Trebbi e Alberto Bertoni e dal sassofonista Ivan Valentini, il trio Eskimo è un’espressione del connubio tra poesia dialettale modenese e improvvisazione. In Fumàna, Trebbi e Bertoni hanno ricompreso la loro poetica in 5 tracce condividendo spazi della memoria narrativa che riprendono ricordi vissuti attraverso la meteorologia e l’universo, oppure ricordi di strada, di passanti, di genitori o di santi, che entrano in una sorta di metafisica descrittiva del quotidiano. Più raffinato Trebbi, più concreto Bertoni, Fumàna vede i due autori avvicendarsi nel reading con un interesse non secondario al discorso sonoro: si cercano connessioni naturali in una materia in cui Valentini e Perciballi sono bravissimi nel tenere in vita le orbite della calamita poetica. Non sono semplici riempimenti musicali quelli dei due musicisti ma libere espressioni che si sommano alla lettura dei poeti: la parte finale di Rais con il suo carico invitante di vitalità, le evoluzioni di sax alto ed elettrica adeguatamente calibrate sui racconti e profuse lungo tutto il percorso di L’àmbra di spèc o anche la finale Fin dal mànd, dove i colpi della tecnica estensiva e del live electronics si mettono in evidenza, sono alcune dimostrazioni di quanto valore si può trovare in un prodotto del genere. Unica rimostranza è la mancanza di una traduzione nel booklet.