Input al cervello: intervista ad Alessandro Ragazzo

0
1438
foto Sandra Tonizzo

Cinque Studi sul Paesaggio è l’ultimo disco di Alessandro Ragazzo e la prima uscita della neonata etichetta Dissipatio di Nicola Quiriconi.
Dal 1994 Alessandro sperimenta il concetto di “paesaggio sonoro” proseguendo in un percorso di ricerca ed espressione. In questi anni ha registrato numerosi dischi, ha accumulato giga e giga di suoni e si è addentrato nei labirinti della letteratura e della filosofia.
Quasi tutti i suoi lavori presentano nel titolo il richiamo al paesaggio: Lagoon Submerged (Green Field Recordings 2015), Terra d’ombra (Setola di Maiale 2017), Field Notes – Napoli (Sono Space 2020) Twin_Landscape.
Ho conosciuto Alessandro un pomeriggio dello scorso ottobre.
Aveva con sé l’ultimo suo disco e alcuni dei libri che rappresentano una premessa alla sua musica: “Il Mondo come volontà e rappresentazione” e “Sulla musica” di Arthur Schopenhauer e “L’Anticristo” di Friedrich Nietzsche. Ascoltandolo nel suo raccontarsi ho maturato l’impressione che Ragazzo voglia porre il prefisso “anti” innanzi a molte sue posizioni.
Il nostro secondo incontro è avvenuto online, connessi e a distanza. Sul desktop non vedevo l’immagine del suo viso in diretta, ma la foto di una costa sul mare con l’ombra a terra di Alessandro ritratta nel gesto di porgere il microfono incontro alle onde.
Mi sono immerso nel contenuto delle sue tracce. Ho ascoltato i riferimenti intellettuali del suo pensiero. Ho lasciato fosse lui a tracciare la strada.

***

AS: Cinque Studi sul Paesaggio si aprono all’ascolto e richiedono una sintonizzazione. Attraversandoli vengo da loro catturato e al contempo svuotato di me. Questo effetto mi porta a considerarli un’esperienza di viaggio. Presentano cambi di dinamica, differenti suoni, ampiezze, molteplici elementi. Ho visto in loro un percorso, anche una trama, sebbene questa sia estranea alla tua ricerca.
AR: Attribuendo a questa musica un titolo con la parola “paesaggio” automaticamente richiamo l’idea di una trama. In questo caso è una trama slegata, ovvero fatta male. Combatto contro l’abitudine alla narrazione spesso imposta come condizione necessaria per lo sviluppo di qualsiasi progetto. Non voglio percorrere una sequenza costruita a regola, un percorso definito per andare dal punto A al punto B. Miro a slegare, a sfibrarla questa trama che nel mio caso è il paesaggio. È come se sfilassi la materia di una coperta e continuassi nell’azione fino a sgualcirla del tutto, a ritrovarmi in mano un residuo che non può coprirti. È un lavoro che non offre un atto consolatorio, non garantisce un senso e un finale: si affida a un non intento e questo principio è contrario al concetto di narrazione che prevede un inizio, un sentiero e una fine. Tutto ciò a me sta stretto.

AS: Non offri una bussola…
AR: Mi allontano da qualsiasi tentativo di narrazione, mi pongo in antitesi a ciò di cui è satura certa nostra cultura come ad esempio il cinema o la musica di oggi. Un mio riferimento artistico è Francis Bacon: i suoi quadri non presentano né una narrazione né un fine consolatorio. Manca in lui l’utilizzo classico del simbolismo, la rappresentazione realistica, figurativa, una chiave di lettura razionale. In Bacon c’è eliminazione, sensazione. Di fronte ai suoi quadri posso chiedermi della natura di figure così disposte: piccoli punti, piccole narrazioni interrotte, una siringa ipodermica, una macchia sul letto. Sono immagini che giungono come input al cervello, ma sono strappate da una scena, presenti eppure indipendenti, straniere, estranee. La sua espressione sembra in movimento, invasa da colpi epilettici.

AS: Anche questo disco è influenzato dalle suggestioni della lettura del “Lenz” di Büchner, dal viaggio introverso dentro un paesaggio che amplifica la psicosi del suo protagonista?
AR: Il racconto di Georg Büchner ci mette in contatto con un vissuto patologico.  Il Lenz aveva chiari disturbi di schizofrenia, lo stesso male di cui soffriva anche l’autore del racconto. La schizofrenia è una condizione interessante perché amplifica la sensazione, ingigantisce l’esperienza del mondo oggettivo portandola dentro una soggettività priva di ancore e riferimenti stabili.
Anche il suono può amplificare la percezione della realtà, nel mio caso del paesaggio: non solo attraverso l’utilizzo del volume, ma esagerandone la presenza: un po’ come ingrandire a dismisura un testo per avvicinarsi alle sue parole al punto da percepirlo senza più riconoscerlo.

AS: Mi sembra di capire che questo tuo lavoro sia un’acutizzazione del sentire. In questo disfacimento di suono –parli di materiale sfibrato – non trovo un vuoto, ma un grande pieno.
AR: Può essere recepito come grande pieno, ma può lasciare altre persone spiazzate, dare fastidio, creare disturbo. Ascoltandolo con un buon impianto puoi coglierne tutti i bassi: in alcuni punti anche il cono comincia a grattare perché non riesce a sostenerle certe frequenze. Sono amplificazioni a cui siamo giunti io e Nico De Giosa attraverso il mastering. Siamo stati in studio due giorni, in un casolare disperso per le campagne di Tessera e immerso nel freddo, a maneggiare queste tracce, a evidenziarne le parti. Il dondolamento di bassi che senti è un field recording che inizialmente parte semplice e poi risalta grazie ad una serie di frequenze e tonalità. È presente un pianoforte trovato a Venezia e portato in un negozio da un amico: sapendo di questo ritrovamento sono andato a suonarlo e a registrarlo; ho registrato anche uno strumento a corde. Una miscela di componenti mi hanno portato a questo risultato. De Giosa ha contribuito con il suo lavoro alla resa del suono finale.

AS: Nelle tue registrazioni sei animato da un’intenzione precisa, sai cosa cogliere o ti metti in cammino e in base a ciò che trovi, catturi?
AR:La base è quella di un percorso. Parto da dove mi trovo. Ormai ho raccolto un quantitativo enorme di suoni, un hard disk stracolmo di giga. Viaggiavo sempre con il microfono: al supermercato, in montagna, ovunque. È un vecchio Zoom che funziona ancora bene: con lui e le cuffie ho la sensazione di sentire come io presumo sentano i cani. Continuavo a registrare la vita quotidiana, passo dopo passo, anche suoni e rumori provenienti dall’urbanistica come il freno di una macchina o i fischi dei locomotori dei treni che corrono vicino a casa. Prendo pezzi, campiono, taglio, rimetto, copio, incollo, e da lì registro su nastri, fisso in tape loop. Non c’è un intento, non vado a prendere quel suono, è frutto del caso.

AS: Un collezionista delle voci del paesaggio, come se ne afferrassi le sue pronunce.
Cosa racconta questa tua fame di suono?
AR: Racconta poco, racconta i cambiamenti nel suono quotidiano, entra nelle abitudini delle persone. Di me racconta il continuo togliermi dal linguaggio.
Dopo aver letto alcuni libri di ecologia acustica ritengo questa disciplina si limiti a questioni sociali, come ad esempio al cambiamento climatico o alle conseguenze di alcune tipologie di suono sull’essere umano. Per me l’ecologia acustica è un punto di partenza, ma è in un pensiero filosofico che voglio sconfinare e trovare i miei riferimenti. Attraverso la pratica del field recording voglio accedere ad un altrove che non abbia più a che fare con il paesaggio e neppure con l’umano. Con i miei studi strizzo l’occhio ad una certa mistica, nel mio disco cito un pensiero di Abû-l-Hasan al-Nûrî (n.d.r. “Non possiedono nulla e da nulla sono posseduti”). Parto dall’ecologia acustica, passo attraverso la filosofia e approdo inevitabilmente nei lidi aperti della teologia.

AS: Con questo lavoro scavi nel profondo. Mi fai pensare alle iniziazioni condotte attraverso l’uso di stupefacenti per raggiungere uno stato di altra coscienza.
AR: I primi mistici, come ad esempio Abû-l-Hasan al-Nûrî, ricercavano questo stato attraverso il digiuno.
I Cinque Studi sono una prima parte, ci sarà un seguito con materiali diversi: mi tengo sempre aggiornato su tecniche di montaggio a nastro e registro di continuo. Intanto ho fatto uscire questo disco che è il frutto di un lavoro compiuto su oltre quaranta tracce lunghe più di mezz’ora l’una: ascoltandole attentamente, selezionando e scremando il più possibile ne sono sopravvissute cinque.
Ci vuole molta presenza e un’attenzione vigile per non assuefarsi al suono.
Ci tengo a sottolineare quanto questa ricerca si poggi su uno studio. Molti pseudo colleghi escono continuamente con dei dischi nuovi di cui spesso ne intuisco la mancanza di un pensiero: sfoggiano copertine fiammanti, una super etichetta che garantisce milioni di like e di copie, ma non presentano fondamenta. Le persone si bagnano la bocca con l’ecologia acustica tornata in auge negli ultimi dieci anni. È una bella base, ma se non viene approfondita con Schopenhauer, Silesius, Nietzsche, Novalis, con la storia della filosofia tutta, rimane spoglia. La pratica del field recording deve prevedere una conoscenza della natura, ma anche un’altra conoscenza, per farle diventare poi incoscienza nell’atto pratico, giungere cioè alla perdita dell’identità.

AS: Il paesaggio per te è un mezzo per andare oltre il paesaggio stesso?
AR:È la chiave. È come la storia di K. ne “Il Castello” di Franz Kafka: un agrimensore è chiamato da un conte per svolgere dei lavori in un villaggio, ma troverà man mano continue difficoltà e porte chiuse fino alla conclusione del libro. Lui si prodiga, prosegue, continua nel suo ricercare pur non trovando l’entrata che conduce al Castello, luogo da cui provengono decreti e divieti che condizionano la sua vita.
Nei miei lavori c’è sempre alla base il paesaggio: io sono il soggetto, il paesaggio è l’oggetto. Procedo in questo rapporto fino a invertire i ruoli, a ritrovarmi oggetto di un paesaggio divenuto soggetto. Ci compenetriamo. Il paesaggio agisce su di me con una sorta di appannamento, con gli stessi effetti che procurava il dio Eros nella mitologia greca. Quante guerre, quanti scontri a causa dell’insorgere di un amore.
Giungo a non sentire più eros verso il paesaggio, a non idealizzarlo: lo lascio amplificandolo, mancandolo al contempo. Molte persone potrebbero chiedersi dove esso sia nel mio lavoro. È come per i quadri di Francis Bacon: qualcuno potrebbe non comprenderne la presenza di umanità perché ci sono parti che non tornano, braccia gambe e segni che sono spostati, disarticolati. Anche l’anatomia viene meno, è distorta, mancata.
La società moderna esige che il significato sia necessariamente presente. Le persone si arrabbiano, vogliono l’artefatto, il concreto, il razionale, la narrazione.

AS: Un approccio quasi esistenziale la tua ricerca.
AR: Non prevede tecnica e non può avere spartito. Entra in gioco l’irriproducibilità. L’unica sua riproducibilità sta nel fatto che mi stampano 100 copie, ma il mio lavoro non può essere ricalcato. Vado a sbattere contro Schopenhauer, Nietzsche per fare del mio discorso una materia seria.
Escono dischi passati dalle radio come dei vertici dell’elettronica: penso tu possa anche utilizzare un sintetizzatore da ventimila euro, ma che non sia quella una garanzia di sostanza. Spesso manca un percorso interiore, tutto è basato sulla riproducibilità di un certo beat, prodotto oltretutto con un software. All’inizio anche io utilizzavo dei programmi su computer, uno dei primi è stato il Fast Tracker del 1992 – andava ancora in DOS. Pian piano ho buttato tutto perché i suoni che così ottenevo scadevano nella riproducibilità: sono passato alla registrazione analogica.

AS: Ascoltarti mi porta a riflettere sul regime della vita monastica. Penso la conseguenza di un approccio che miri al profondo possa essere il confine di un percorso in solitaria. Mi hanno sempre affascinato le ragioni che spingono i monaci a chiudersi nei chiostri per intraprendere la loro vocazione. Chi pratica una determinata ricerca si distacca, si sposta dalle regole di questa società.
AR: Anche gli indiani hanno da sempre intuito questa direzione, la maggior parte della filosofia induista è basata su questo principio. Non sono mai stato in India e sinceramente non so se ho intenzione di andarci.

AS: Attraverso il suono possiamo comunicare alle persone, influire sul loro benessere, anche manipolarne i comportamenti. Tu parti dal field recording per giungere ai paesaggi di cui sei microfono e amplificazione. Secondo te il suono del mondo, della natura, offerto all’uomo nella sua verginità, ha proprietà manipolatorie?
AR: Non c’è in natura intento manipolativo, il suo suono dà sollievo alla parte fisica e mentale dell’essere umano. L’uomo è tutt’uno con la natura: siamo stati noi a distorcere il rapporto ponendo un distacco che non esiste.
Gli interventi dell’uomo su certi equilibri hanno causato segni indelebili al nostro fisico. Gli stati depressivi e angosciosi sono esplosi con l’industrializzazione, quindi con l’espansione umana che ha coperto il suono della natura relegandolo solo a certi angoli sperduti. Siamo disabituati a quel suono, ci siamo meritati questo disturbo.

AS: Dove ti piacerebbe eseguire la tua musica?
AR: All’interno di un paesaggio naturale senza costrutti. Ho già eseguito anni fa delle installazioni sonore all’interno di boschi e foreste.
Vorrei seminare nel cranio delle persone l’idea che si possono abbandonare i binari della narrazione. Questa ti serve se fai quattro accordi, appartiene ad un certo tipo di mercato, alla massa, a coloro che vogliono affrancarsi dalla vita con un attimo di svago. Con questo lavoro penso e spero di non divertire nessuno. La nostra società traduce tutto in spettacolo pur di accecarci: io non devo affrancare gli altri, tanto meno me stesso, è questa la mia posizione.
Propongo dei (s)vissuti, delle esperienze sospese. Anche la copertina del disco presenta una spiaggia atipica: ha delle lingue viola, strascichi che le appartengono; è una versione allucinatoria, irreale, un fotogramma dai contorni imprecisi, l’involucro di una musica senza intento, spiattellata lì senza margini e confini. Se ascolti questi Studi secondo dopo secondo, comprendi che sono materia di tutto e di nulla, contengono tanto, ma allo stesso tempo non hanno collocazione.

***

È possibile approfondire l’ascolto della musica di Alessandro Ragazzo seguendone il profilo Facebook, Youtube e l’account SoundCloud.

 Mestre, 19 novembre 2020

Articolo precedenteIvan Vandor: a private sea of dreams
Articolo successivoBruno Maderna: amore e curiosità
Dopo la laurea in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, affronta gli studi musicali diplomandosi nel 2013 in canto moderno con 110 lode e dignità di stampa/ 110 presso il Conservatorio G. F. Ghedini di Cuneo. Consegue nel 2018 il diploma in Gestalt Counseling presso la Scuola Superiore Europea di Counseling Professionale ASPIC - sede di Venezia. Svolge attività professionale come counselor, cantante e organizzatore di eventi culturali.