“…per sua definizione ontologica, l’improvvisazione musicale informa ogni aspetto della musica che viene creata durante una performance. Sia essa l’interpretazione di un testo sia composizione istantanea. Ciò può includere sottili cambiamenti nel tempo o nella dinamica, ornamentazioni, rubato, articolazione e fraseggio, bilanciamento delle dinamiche e molto altro ancora...” (Gianni Lenoci, Alchimia dell’istante, Auditorium, 2020, pag. 51).
Chi ha ascoltato Gianni in concerto può ben immaginare la varietà di elementi da lui richiamati per l’interpretazione e soprattutto la sua idiosincrasia verso coloro che molto sbrigativamente sistemavano la questione degli standards; quella pianificazione mai doma perché suscettibile di ulteriori variazioni, qualcosa che veniva determinata anche dal momento e dalle condizioni acustiche della performance, viveva sui contorni di una instabile attività improvvisativa sviluppata sede per sede. Sugli standards jazz Gianni ti faceva capire che era possibile costruire un discorso autentico, partendo da cellule melodiche pian piano disintegrate in un lavoro sensitivo ed energico sulla tastiera e molto spesso effettuato negli interni del piano: la mia sensazione è che Gianni possedesse la contezza sonora dell’ambiente in cui si esibiva (fosse una chiesa, un teatro o un chiostro antico), una sorta di orecchio alle spalle in grado di verificare il luogo dell’esibizione e le temperature d’eccitazione emotiva dei presenti. Ed era anche spiazzante poiché persino le orecchie “fini” tra i convenuti di un suo concerto, non erano in grado di riportare similitudini istantanee ad altri pianisti, anche al termine dell’esibizione: quando non doveva concentrarsi sulla materia esecutiva e su un ambito improvvisativo più ristretto dalla composizione, Gianni percorreva la storia del pianismo classico, jazz ed avanguardistico con una facilità di sintesi impressionante; in lui non si compiva nessuna lezione di stile, difficilmente si potevano trovare intervalli o blocchi sonori in grado di stabilire un percorso solo a lui imputabile, ma si intravedevano parvenze, rimandi, in una situazione pianistica in cui passavano in rassegna o si coagulavano schegge di interi periodi della nostra storia musicale. Si potrebbe parlare per lui di “stile variabile”. Per Gianni era super importante il requisito dell’autenticità, suonare come parlare, mettere in moto una discussione verbale per la quale non abbiamo bisogno di preparazioni perché l’abbiamo introitata dentro di noi alla perfezione. Non escludeva nulla e nessun concerto era uguale ad un altro.
A Few Steps Beyond è un’altra splendida testimonianza che proviene dal Talos Festival del 2019, l’ultimo concerto pubblico che Gianni tenne alla Pinacoteca d’Arte Moderna a Ruvo di Puglia e che riporta un set di improvvisazione imbastito su temi celebri del jazz; nella sua estesa discografia, le poche registrazioni in solo (7 compreso questo concerto al Talos) reagiscono quasi sempre ad impulsi compositivi conosciuti, su cui Gianni ha impostato le sue rielaborazioni: è d’obbligo sentire come ha fornito le migliori interpretazioni di sempre su alcuni lavori di Earle Brown (compositore che è stato oggetto anche di un temerario abbinamento con Bach, di cui non c’è però traccia discografica), come ha presentato una delle versioni più accattivanti di For Bonita Marcus di Feldman e riproposto Cage con il proprio punto di vista (gli americani della New York School erano i più autentici esempi compositivi per lui), come ha lavorato sulle infiltrazioni melodiche per spiegare la sua versione di Lacy (Agenda) o ha sviscerato una fase del suo inconscio sulla base degli spunti di un trio con Carter e Elgart in Backward dreams; e per me, il suo ricordo più bello, è Ephemeral Rhizome, uno scrigno di musica imperdibile di Gianni inciso alla Evil Rabbit, l’etichetta del pianista olandese Albert van Veenendaal, un cd che ricevetti dalle sue mani direttamente in un nostro incontro (mentre me lo porgeva mi disse “...Ettore, questo lavoro è proprio buono!…“); quel giorno si doleva anche del fatto che quel cd avesse avuto poco riscontro e la ragione forse era il fatto di una minore spendibilità commerciale, ma lì c’è davvero uno dei massimi passionali e della sperimentazione pianistica di Gianni.
A Few Steps Beyond è espressione del Lenoci vicino al jazz e alla materia degli standards, direzionalità musicale che fa comprendere piuttosto bene il concetto di “infiltrazione”, ossia la divisione/diluizione del tema nel processo improvvisativo: nell’iniziale Lorraine (il pezzo di Ornette Coleman), Gianni parte con le armonie “macchiate” nel solco di Waldron, per poi snocciolare note alla stregua di un pianista contemporaneo, con la fantasia che sale di velocità mentre nel durante appaiono ogni tanto fantasmi della melodia di Ornette; All the things you are, lo standard di Kern, è già modificato all’origine da uno sfasamento di battute creato ad hoc, ma lo sviluppo poi si apre a mondi sonori obliqui, con la mano destra che pulsa continuamente su un accordo e la sinistra che non ha pace; in Blues Waltz di Paul Bley, il caratteristico stato d’animo del blues si scioglie letteralmente al quarto minuto per dar luogo ad una ruminazione tayloriana; Ida Lupino di Carla Bley si carica di tensione, le mani di Gianni coprono anche l’atto dello sventaglio e la melodia riappare frazionata in pulviscoli sonori e quando siamo al finale, si capisce che la propensione melodica di Latin Genetics, memoria del Prime Time di Coleman, trova una immediata e nuova definizione grazie a lui, dandoci la sensazione di una macchina musicale che va veloce in salita, con scale adeguate sul pianoforte.
Nelle note di copertina Gianni Mimmo ha sottolineato un atteggiamento meraviglioso di Gianni Lenoci: “…una delle costanti dell’estetica di Gianni è costituita dalla straordinaria attitudine ad esercitare contemporaneamente sguardo globale e particolare, a trovare una possibilità di coesistenza fra piani sonori lontani…“; sulla base di questa affermazione mi chiedo che cosa stesse cercando Gianni in questa giusta ed incredibile connessione e non posso fare a meno di pensare ai grandi pianisti jazz del Novecento, a quelli più “avventati” e disponibili ad una proiezione totale dei loro principi nell’ambito dei processi improvvisativi, soprattutto in funzione di una nuova configurazione della “memoria” musicale. E’ su questo aspetto che Gianni stava probabilmente riflettendo, qualcosa in cui le dimensioni si confondono e riemergono, sensazioni in grado di portarci tutti “a few steps beyond!”.