Quando nei circoli dell’elettronica cominciò a farsi largo l’idea del glitch, si era giunti in una grande fase di maturazione della techno-music. In quel momento alcuni musicisti, favoriti dal fatto che i computer casalinghi erano strumenti sempre più potenti per esplorare suoni e concetti che appartenevano al mondo accademico, capirono che forse era possibile un approccio differente alla musica prodotta con i laptops, lavorando sui significati della stessa tecnologia. Questo non implicava affatto una sostituzione del lavoro dell’uomo con quello dei computers, ma piuttosto il raggiungimento di una posizione creativa, che induceva a scavare in una specifica estetica, quella degli artifici sonici dei computers: le prime forme di glitch music si tradussero in musicisti, etichette, concerti o lavori discografici di cui probabilmente se ne riconoscerà il valore fra cento anni e attori essenziali come l’austro-inglese Peter Rehberg hanno scolpito probabilmente nuove direzioni per la musica, profondamente immerse nel desiderio di esplorare qualsiasi aspetto delle tecnologie, compreso i suoi difetti (per un esame riflessivo delle fonti glitch leggi mio articolo qui).
La scomparsa prematura di Rehberg ci costringe già ad un primo bilancio dell’artista e l’ascolto della sua completa discografia fa comprendere comunque che il fulcro più ben congegnato e affascinante è stato quello che il musicista ha profuso sotto lo pseudonimo di Pita, posto in cui la fase glitch ha avuto modo di esplicarsi e lasciare un segno evidentemente disponibile anche per il mondo laico della composizione: le vicende che hanno portato alla nascita della principale etichetta discografica specializzata in quel genere, la consistenza e l’equilibrio delle vedute condivise con Ramon Bauer e Andreas Pieper, l’originalità dei processi di selezione dei suoni, fanno di Rehberg un riferimento essenziale per dimostrare che esistono modelli di creatività anche nel campo del rumore o degli scarti tecnologici.
Nonostante le molte collaborazioni che Rehberg ha posto in essere in questi ultimi vent’anni, l’invito è a rivolgersi immediatamente al periodo dei progetti con Bauer (sotto nomenclatura General Magic o Rehberg & Bauer), al primo, indiscusso e irripetibile album solista dal titolo Seven Tons for Free del 1996 e a tutti i lavori del ciclo “Get” (Out, Off, In, Down): quel montaggio, quelle frammentazioni soggettive che definiscono uno scenario di movimento solo a lui ascrivibile, sonicamente rivestono un posto antecedente alle pur valide rappresentazioni musicali fornite nei meandri dell’improvvisazione (un buon ricordo si nutre con Afternoon Tea, dove Rehberg avvicina lo stile alle presenze di Rowe, Fennesz e Gough) o nelle produzioni digitali.
C’è un indiscutibile legame che unisce Rehberg ai primi esperimenti di Schaeffer, alle doti portate dai compositori francesi o tedeschi dell’elettronica accademica, che può essere visto come un particolare sviluppo dell’esperienza acustica promulgata da Bayle: suoni intesi come immagini da vivere in tripla dimensione (Cartesio+profondità), combinazioni che santificano l’attività di manipolazione e che hanno giustificato l’interesse di Rehberg verso una riproposizione del catalogo INA-GRM.
Noi ascoltatori siamo davvero tutti indebitati verso i protagonisti della ricerca sonora fatta alla Mego Records di Rehberg*.
RIP Peter
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*Nota
Per una riflessione sugli scultori sonori e il ruolo della Mego R. (leggi anche qui)