Su queste pagine il nome di George Crumb (1929-2022) è ritornato più di una volta come profonda simbologia espressiva oltre che musicale. Mi occupai di delineare le sue principali opere in un articolo del 2016, luogo in cui mi preoccupavo anche dei suoi familiari (lo puoi leggere qui) e commentai una delle più belle esecuzioni dei suoi Makrokosmos, suonati da Yoshiko Shimizu (qui).
Crumb ha fatto parte del post-serialismo sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni sessanta, proponendo soluzioni piuttosto differenziate rispetto a quanto era conosciuto dalla scuola di Vienna: assieme a Milton Babbitt, Elliot Carter, Lukas Foss, George Perle, Charles Wuorinen, Gunther Schuller o Roger Reynolds, Crumb forniva anche esempio di contrasto alla semplice duplicazione o educata variazione delle tecniche seriali; vi è dell’altro in Crumb, una dignità politica e poetica che va oltre le giustificazioni musicali, l’abbrivio di tecniche estensive ancora in fase di maturazione, le inconsuete partiture che sottolineano il salto generazionale ed evolutivo della musica classica (spirali, raggiere, dislocazioni), il grande interesse per il timbro.
Alla fine la sua fu un’impostazione che, partendo dal trasformismo di Weber, giunse ad un personale grado di contribuzione avanguardistica, qualcosa che ha potuto mettere in evidenza il suo slogan, ossia che “la musica può solamente esistere quando il cervello canta”.
RIP George Crumb