Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.
Lo spirito e la saggezza degli antenati non dovrebbero mai essere un appiglio sicuro, un testo sacro al quale attingere con cieco dogmatismo: l’autentica devozione ai giganti del passato può esprimersi appieno soltanto per mezzo di una fertile e consapevole libertà espressiva, in ossequio alla loro incorruttibile tensione innovatrice. La giovane sassofonista Kaleigh Wilder ha certamente una moltitudine di maestri verso cui rivolgere lo sguardo, ma sembra avere già sufficiente sicurezza per trovare in se stessa l’ispirazione centrale del proprio linguaggio improvvisativo. E Placemaking è il suo lucente manifesto.
Dopo l’uscita col quartetto Gnostikos dell’anno precedente, l’esordio a nome proprio è in verità un duo simbiotico con il batterista Everett Reid, talento emergente diviso tra Chicago e Detroit, ancora oggi centri nevralgici per la scena hip-hop e l’imperituro culto jazz. Alla benaugurale “Invocation of the Ancestors” – un soffio di vento tra le maglie del tempo – succede immediatamente un take dal carattere epifanico: in “Dyad” gli scoppiettii sordi e le articolazioni primitive del sax baritono sembrano schivare i colpi fulminei di una “talking” drum sciamanica, polifonica e pervasiva come nelle suite estatiche di Milford Graves (così anche il tentacolare assolo della terza traccia, un gioco di tamburi e piatti semplicemente formidabile); dopo la tempesta il silenzio, fin quando non si fa strada un inno di gratitudine e di grazia, un canto sincopato che è di per sé un nuovo inizio e fine.
Solo questo e la sommessa, dolceamara “These Tears I Cry” gli episodi originanti da un essenziale canovaccio, nell’assoluta prevalenza di un impulso creativo spontaneo fondato sulle affinità stilistiche e sull’ascolto reciproco. Nell’ancia di Wilder risuona soprattutto il lirismo sofferto di Albert Ayler, benché di tanto in tanto faccia propri anche i tuonanti barriti della generazione Gustafsson e Luca T. Mai (“GUILTY ON ALL THREE”), solcando con piena coscienza ogni registro e valorizzando i minuti dettagli timbrici che affiorano nel corso dei suoi intensi soliloqui; ne diviene sintesi e paradigma l’umbratile crescendo di “Contemplation”, che da un fragile vocalizzo sull’estremità del bocchino va addentrandosi nelle profondità dello strumento – e nel fuoco divampante che si cela in esso.
Placemaking non è che un primo assaggio, sorprendente in particolare nell’approccio trattenuto ma fiero dei due performer, i cui gesti misurati sarebbero forse stati meno evidenti in una formazione jazz di maggior ampiezza. L’accostamento tra sax e batteria dà qui luogo a una sessione di inaspettato intimismo, un’invocazione quieta e passionale germogliata dalla parentesi surreale dei primi lockdown globali. È il suono mite dell’esserci, dell’essere vivi.