Nel processo di rinnovamento della musica del Novecento non mancò di suscitare interesse il cosiddetto Manchester Music Group, una triade di compositori inglesi che nel 1953 contribuì a far conoscere le idee musicali di Schoenberg in Inghilterra (si trattava della triade Goehr, Maxwell-Davies, Birtwistle). Come ho avuto modo di spiegare in passato quella scuola ha sempre ricevuto molte critiche, probabilmente perché ha dovuto affrontare oltre che il difficile cambio di paradigma del serialismo anche un’ostilità degli addetti ai lavori per via di un presunto manierismo della musica. Gli studiosi che si sono avvicinati, per esempio, ad un compositore come Harrison Birtwistle, ne hanno sempre sferzato le radicalità, pronunciandosi verso una mancanza di conformismo verso il gruppo di Manchester: sebbene quegli inglesi credessero moltissimo nel serialismo come nuovo metodo per cambiare il mondo (Birtwistle era convintissimo di questo all’epoca della sua giovinezza), essi avevano anche un’idea intellettuale privata soggiacente, approcci alle strutture musicali che non si ritrovavano solo in una serie o in una riappropriazione di un carattere già sperimentato dalla storia.
Per Birtwistle è essenziale ricordare che di fianco alle creazioni del Pierrot Players si fece strada un ampio interesse coltivato nel cuore delle istituzioni musicali e culturali londinesi degli anni sessanta, ossia quella di un teatro musicale lontano dalle convenzioni, con attori musicali e gruppi ben delineati nella comprensione di una linea progressista della musica: la creazione del Music Theater Ensemble, l’ingaggio della London Sinfonietta e della direzione orchestrale di Pierre Boulez, sono alcuni degli elementi dello sviluppo della storia del teatro musicale e dell’orchestrazione contemporanea che non possono essere negati in nessun modo.
Dal punto di vista dello stile farei anche a meno di dare troppo peso a quelle tesi che lo hanno avvicinato a Stravinsky (per i suoi ostinati) o all’iperformalismo di un Ferneyhough (la cui validità si è rivelata con molta parsimonia), questo perché il compositore inglese ha usato gli elementi altrui senza farsi carico di doverne costruire un’abitudine: se prendete Tragoedia nel 1965, una composizione per ensemble specifico ed insolito (flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, arpa e string quartet) vi renderete conto di quanto fosse vicino al modello stravinskiano, al contrario la partitura dei 25 minuti del piano di Harrison’s Clocks farebbe paura a qualsiasi pianista maturo.
Ragionevolmente non trovo nemmeno quella forte dicotomia tra l’opera e la musica strumentale come indicato da Deliège nei suoi scritti, una distinzione basata sul realismo delle composizioni che non trova riscontro che in un idealistico accostamento dei temi trattati: pur dovendo fare degli sforzi interpretativi per chiudere in un concetto di massima la musica dell’inglese, mi sembra di poter affermare che il grande lascito intellettuale di Birtwistle sia nell’aver saputo farci riflettere sul tempo e sulla storia; gli impulsi, le poliritmie complesse, le suggestioni impresse da una visione personale del serialismo, vanno tutte inquadrate nell’economia di gestione del tempo e della sua possibile espressione in musica. E’ una riflessione che è frutto dell’aver introitato gli eventi della storia, dall’antichità di quelli legati alla tragedia greca fino ad arrivare a Celan, dove è la stessa impostazione della musica che favorisce l’immutabilità dei criteri di osservazione temporali: vi invito al riascolto di questa favolosa e subdola infiltrazione mentale in pezzi da rivalutare assolutamente come il già citato Tragoedia, come Triumph of Time o Imaginary Landscapes, come l’opera The Mask of Orpheus, che si presenta anche con un efficiente e subliminale parte di elettronica. La riflessione è nella pulsione o nell’elevazione al suono di uno strumento a fiato o di un clarinetto, strumento di cui era un gran conoscitore, sta nel riconoscere un “rituale”, una disposizione religiosa antica, nel scorgere un “teatro segreto” dietro le note o la longitudine dei meridiani e degli orologi di Harrison, ma senza voler produrre enigmi quanto per reggere i livelli di una iconografia di cui se ne dovrebbe fare più uso. Le metafore di Borges.