Andrea Gerlando Terrana vive in provincia di Agrigento.
Dopo una lunga formazione in chitarra classica e composizione, sceglie di dedicarsi completamente alla musica elettronica che considera una possibilità senza limiti.
Si considera vittima delle sue idee artistiche e ritiene oneste solo le opere che presuppongono pensiero e dignità intellettuali.
Dà peso e importanza a tutte le parole con cui spesso gioca e compone: predilige la parola suono a musica, afferma la necessità di un’intenzione come fondamento di tutto, amplia i confini a categorie e definizioni, parla di contesto sonoro in alternativa al concerto, agisce solo in risposta a un sentore di urgenza.
Trascorre molto tempo ad ascoltare la voce e il pensiero di persone che considera maestri.
Le sue composizioni attraversano e abbracciano generi differenti e luoghi di pronunciata identità sonora e storica.
Andrea condivide i frutti della sua ricerca e lavoro sul web, attraverso canali Social come Instagram, YouTube, SoundCloud e Facebook. Il nostro contatto è scaturito da un velocissimo clic agganciato alla vastità della rete che tutti avvicina e al contempo allontana.
Questo il resoconto di un incontro avvenuto d’estate, a distanza, stimolato da un ceffone accidentale.
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AS: Andrea, intercettando il tuo account su Instagram e ciò che appare dal tuo profilo, ho subito pensato che la tua musica e la tua ricerca potessero trovare spazio e ascolto su Percorsi Musicali.
Coinvolgi più sensi: interpelli la parte visiva, la parte sonora, aggiungi indicazioni con la parola scritta. Considero sia un assistere alla multimedialità della comunicazione.
AGT: La mia presenza e azione su IG le intendo come l’atto del mettere un messaggio dentro a una bottiglia per lanciarlo in mare. Il web è una porta d’accesso al mondo, varco di un altrove che offre possibilità incredibili. Ma anche il fatto d’esserci intercettati nel “non luogo”, intendo proprio tu ed io, ha quell’incredibile che ormai appare scontato: qualcosa è riaffiorato da un oceano che inghiotte il nostro manifestarci addosso.
Ricevere la tua e-mail è stato quindi come prendere una sorta di ceffone: quello su cui ci siamo confrontati preliminarmente a questa nostra conversazione contiene sufficiente materiale da farne un film e argomenti da poterne discutere tesi o dibattiti.
Fondamentalmente sono un compositore di musica elettroacustica, ma difficilmente parlo di musica riguardo a ciò di cui mi occupo, semmai parlo di suono: generalmente, stare nella musica significa rimanere in una bolla di vizi, una denominazione che dice tutto, ma soprattutto nulla. Musica è infinito/finito, tanto che servirebbero parole nuove per definirne i confini. Trovo che il termine suono sia, in questo senso, di soccorso: solleva dalla preoccupazione del chiedersi se ciò che si fa, o si ascolta, è o non è musica. Tutto questo ci ricorda che viviamo in un periodo intermedio.
Giungendo ai contenuti dello “spazio virtuale” ritorniamo nell’incredibile giacché nel non luogo si manifesta la materializzazione dell’immateriale: esporre in una galleria virtuale elementi sonori e visivi in un certo senso li rende tangibili. Essendo originariamente IG il luogo dell’immagine acquisita attraverso il telefono cellulare, nel tempo ho maggiormente utilizzato la correlazione suono – immagine. Ho realizzato musiche per docufilm, ma qui il livello è superiore poiché la correlazione suono immagine è bilaterale: un video può suggerire un suono, cosi come un singolo suono può suggerire un’immagine. Un rafforzamento espressivo presente nella stessa opera che non è forzatamente musica con immagini o immagini con musica. Negli esperimenti più riusciti i due elementi non sono in nessun modo debitori l’uno dell’altro. Un altro elemento importante risiede nel fatto che questo spazio virtuale, altro paradosso, in un certo senso costituisce un supporto “materiale” alla musica. I compositori di musica elettronica della prima generazione hanno dovuto, voluto e potuto modellare le proprie composizioni ai supporti musicali fisici dell’epoca (quando non erano i supporti stessi a offrire gli stessi materiali musicali). Mi riferisco alle tecnologie legate al disco in vinile e al nastro magnetico. L’uso improprio di queste tecnologie da parte di musicisti e tecnici ha portato allo sviluppo di raffinate tecniche di montaggio: penso ad esempio ai loop ottenuti chiudendo ad anello il solco di un disco in vinile oppure alla possibilità di poter tagliare e rimontare in modi pressoché infiniti il nastro magnetico registrato. Con l’internet ed il superamento del CD siamo orfani anche dell’ultimo limite, ovvero quello di durata massima di registrazione. Ecco che la storia di Instagram ci restituisce il limite, in questo caso di 15 secondi, in cui dovrò esprimermi. Allo stesso modo posso considerare il video come un “limite” imposto dal supporto e doverlo forzatamente utilizzare. Ho sempre cominciato a lavorare a una composizione dandomi dei limiti… durata totale, numero di movimenti e così via… Trovo strutturalmente essenziali i limiti e preziosi quelli imposti dall’occorrenza. Allora partendo dal mostrare su IG estratti di lavori già prodotti sono passato a quelli in corso di realizzazione fino a giungere, di recente, a vere e proprie miniature audiovisive realizzate appositamente per il “supporto” Instagram. Il titolo, la descrizione e le parole possono suggerire poi un intento, cosi come portare l’attenzione verso altro. Allora si potrebbe essere, come dici, nella comunicazione multimediale.
AS: Ti presenti come compositore di musica elettroacustica e poni un accento sulla parola suono.
In merito ai tuoi lavori, esplorando il tuo profilo Instagram, sono stato subito attratto dai video riguardanti De_Frammentazione.
Hb-Suit3 so invece essere un capitolo per te importante di studio, composizione e ricerca.
AGT:Hb-Suit3 e De_Frammentazione sono i lavori che mi rappresentano maggiormente.
Il primo è un brano così barbaramente chiamato Suit3: scrivo Suit3 con il numero 3 in quanto composta da movimenti liberi non in forma di danza.
Di questi due lavori, questo primo ha peculiarità legate alla pratica della musica elettroacustica.
Si tratta di un lavoro per pianoforte ed elettronica che presenta un aspetto di rivalsa di quest’ultima su ciò che l’esecuzione strumentale rappresenta in ambito elettroacustico.
La ‘recente’ pratica esecutiva per strumento ed elettronica in tempo reale infatti, utilizza come unica materia sonora di base ciò che viene suonato dallo strumentista acustico, mentre l’esecutore all’elettronica si occupa di trattare tale suono per restituirlo in sala. Di fatto gestisce un algoritmo in cui l’input è il suono dello strumentista, l’output ciò che la macchina gli fa.
Ho sempre fantasticato che in concerto, qualora lo strumentista acustico, per una qualsiasi forma di protesta, dovesse decidere di non suonare, il live electronics non potrebbe produrre alcun suono in autonomia poiché, come detto, totalmente soggetto all’azione strumentale.
In Hb-suit3 il performer elettroacustico si affranca dalla figura del pianista grazie all’ausilio di uno strumento che ho ideato e realizzato: si chiama Hb-Box. Questo assemblato, quando posto in prossimità delle corde del pianoforte, riesce a metterle in vibrazione, cosicché il musicista elettronico possa procurarsi autonomamente il suono dal pianoforte. Il preludio del brano è interamente eseguito in cordiera dal musicista elettronico con Hb-Box, e nella mancata presenza del pianista in questa fase introduttiva risiede la necessità di manifestare sin da subito questa indipendenza. La bellezza della Suit3, da musicista elettronico, è che in esecuzione hai davvero la possibilità di suonare insieme al pianista, ed anche in un modo che va oltre il normale interplay tra musicisti: considera che molti suoni prodotti sono frutto dello sforzo comune dei due musicisti che operano al pianoforte, e questa circostanza ha portato alla codifica di un intero vocabolario di tecniche estese per pianoforte con Hb-Box.
“De_Frammentazione – L’eco degli udibili resti ” è un esempio di ciò che intendo con “avere un luogo” (nel senso di farlo proprio). Il fatto di produrre per un luogo specifico mette nelle condizioni di doverlo ascoltare prima ancora di iniziare a “comporlo”. Bisogna visitarlo, immaginarlo, sentirlo… e questo mi fa pensare all’esecuzione come una messa in suono delle suggestioni avute da questo processo. Allora non ci si trova nel concerto, ma in quello che definisco contesto sonoro.
Qui suoni, musica, indicazioni testuali, favoriscono nel pubblico la massima attenzione al suono: invitando, più che alla musica, appunto, al suono.
Mi è stato chiesto di comporre e allestire un progetto per il Parco Archeologico di Selinunte nel 2019. A maggio era morto mio padre, subito dopo la sua morte ricevetti questa commissione che accettai immediatamente. Andammo in scena a luglio.
Si tratta di un progetto di suono elettronico e strumentale intrinseco agli elementi presenti nel sito: reperti archeologici che sono esposti all’acqua, al vento e al sale (n.d.r. il parco si trova sulla costa) da 2500 anni. Ho voluto trattare il suono così come i resti di Selinunte sono stati erosi dal tempo e dagli agenti atmosferici. Scavo il suono in partitura, lo sgretolo pian piano: la melodia del sassofono un po’ alla volta cambia, le note cadono una dopo l’altra, come pietre. Alcune di queste pietre si perdono lasciando pause sulla partitura oppure, rotolando finiscono in basso al pentagramma. Accade questo in Canto Primo per sax soprano, ma l’elemento d’erosione è anche l’elettronica, capace di rendere i resti di suono strumentale polvere. Ci sono poi delle parti obbligate registrate su nastro, Tauromachia prima e seconda che rappresentano degli intermezzi di danza.
Ma oltre alla danza De_Frammentazione è fortemente caratterizzata dalla stessa fisicità dei musicisti: infatti a questi sono indicati punti specifici in cui eseguire determinate frasi musicali in modo da sollecitare acusticamente l’intero spazio fisico. Una naturale spazializzazione del suono che li porta a doversi muovere all’interno di una scena molto ampia. Ad esempio il sassofonista appare per la prima volta da molto lontano compiendo un tragitto tra le rovine. Di volta in volta si sofferma su alcuni capitelli che affiorano tra le rovine ed ogni volta indirizza il tema musicale in direzioni diverse. Ma considera che il sassofonista inizia a suonare la sua frase prima ancora che si riesca a scorgerlo. Con lo stesso principio la strumentazione delle percussioni è disposta in più punti, che il percussionista di volta in volta raggiunge in funzione di ciò che deve eseguire. In questo modo è posto anche in relazione con tutti i suoni che gli accadano intorno perché il suo tragitto può svolgersi in concomitanza di parti musicali eseguite da altri, così come su momenti di silenzio, ovvero, in presenza di suono ambientale. Questo porta i musicisti più che a eseguire una parte, a essere parte di ciò che accade.
Il contesto sonoro è legato a una paradossale decontestualizzazione del suono…
A Selinunte il pubblico, man mano che arrivava, era raggiunto da un suono di bordone simile a un OM molto grave: questo iniziava a essere immerso tra le rocce trenta minuti prima dell’inizio. Partiva con un volume impercettibile, poi cresceva con una curva lineare di energia. Se il pubblico inizialmente poteva non accorgersi di questa presenza, poi veniva solleticato o richiamato dall’insistere del suono. Ho voluto utilizzare questo espediente come fattore di allerta per attivare l’attenzione del pubblico, invitarlo a prendere posto. Allo stesso modo, la prima nota eseguita non viene fuori da un silenzio, ma da quel suono persistente che interrompe bruscamente.
Il mio intento è stimolare, provocare, condurre a uno spiazzamento, in questo caso togliendo il silenzio dalle orecchie dell’ascoltatore. Prepararlo al suono o quantomeno non lasciare spazio all’esserne indifferente. L’utilizzo del suono di bordone senza un reale inizio ha soprattutto lo scopo di annientare la temporalità degli eventi, far perdere il senso della durata effettiva del contesto sonoro e mi piace pensare che favorisca in qualche modo ad allontanare la coscienza del tempo reale, voglio dire del reale scorrere del tempo nel modo in cui normalmente lo percepiamo.
Sul finale il suono si perde così come giunge all’inizio, ma con altro espediente. Ho una traccia audio di quel momento che ho nominato reperto: siamo nel coro, un tutti, il sassofono conclude la sua melodia, rimane il clavicembalo solo con un uso massivo del riverbero applicato non come effetto, per dare spazio e respiro alla nota, ma utilizzato per cancellarla, sbiadirla. Un po’ alla volta rimase, infatti, solo il riverbero di quel luogo…
AS: Una sorta di eco?
AGT: Esatto.
Per me l’esperienza massima è stata immediatamente dopo la fine. Considera che avevo un pubblico curioso, ma certamente non fruitore di musica nuova. C’era anche gente che si trovava lì per le vacanze.
Dopo l’ultima nota del clavicembalo rimanemmo nel silenzio e nessuno si mosse: mi voltai verso il palco, al quale davo spalle per dirigere, ed ammirai un quadro di persone. Dopo un attimo di silenzio ancora, conclusi affermando: «è tutto».
Lì partì un applauso. Nessuno aveva avuto il coraggio di rompere quel prezioso silenzio…
Certamente il contesto sonoro è legato al luogo, lo vivi lì, è ciò che accade lì, ma poi, quando te ne torni a casa, forse lo porti via con te, e quella eco ti aiuta in questo.
AS: Il contesto sonoro presumo dia rilievo e importanza all’identità del luogo a cui si rivolge.
AGT: Sì, certamente, e tutto deve essere calibrato in modo da esaltarne questa identità e soprattutto mai tradirla. Ma potrebbe anche fare molto di più attraverso l’attuazione di una trasmutazione del concetto iniziale. Mi piacerebbe infatti portare De_Frammentazione anche in altri luoghi, sfruttando riprese e immagini del parco di Selinunte appositamente realizzate. In questo modo un contesto sonoro specifico diventerebbe attuabile anche in luoghi differenti da quello per cui è stato concepito e tale operazione avrebbe nel sito la sua centralità. Sarebbe come portare il tempio C di Selinunte in tournée!
AS: Quindi il contesto non va per forza intenso come qualcosa di irriproducibile.
AGT: Nel momento in cui eseguo De_Frammentazione nel luogo per cui è stato pensato, sì.
Posso però ripensarlo, come prima accennavo. Ho già pensato a un titolo in linea con questa idea: De_Frammentazione – da remoto. In questo caso non saremmo più nel contesto sonoro, magari anche, ma in un altro. In poche parole il progetto cambierebbe nell’idea, non nella musica. Ciò che conta è l’intenzione con cui si fanno le cose.
AS: Pronunci spesso la parola intenzione. Nella recitazione l’intenzione è necessaria al gesto perché questo abbia un significato. Senza intenzione risulterebbe vuoto.
AGT: Questo discorso vale anche per l’intenzione con cui utilizzo la parola intenzione: credo che senza di questa non risulterebbe vuoto solo il gesto, ma soprattutto l’individuo che lo compie.
È necessaria una dignità intellettuale: non può esserci un artista privo, quantomeno nelle intenzioni, di dignità intellettuale. È necessaria per entrare nella parte musicale… e per non tradire chi viene ad ascoltare.
Sto scrivendo la mia tesi di laurea: avanzando nella scrittura del brano (n.d.r. qc, con rete di feedback, oggetti ed elettronica) sono arrivato al punto di definirne la forma, come è organizzata la mia composizione: informazioni sulle parti di cui è composta e come queste siano in relazione tra di loro. La forma è lo scheletro: sonata per piuttosto che concerto per…
Dicevo, quando sono giunto al momento di definire la forma, ho intitolato il capitolo: forma?
Non ho dato una forma: la mia composizione è una serie di atti sonori consecutivi.
Più avanti chiarisco: la forma la dà il musicista esecutore. È il musicista che proverà a dare omogeneità, con le sue intenzioni, ai grumi di suono.
È l’azione che informa la forma, un processo di In-form-azione.
Con in-form-azione intendo esattamente questo: l’atto del mettere in forma il brano.
Questo pasticcio di parole è per dire che in questo specifico caso la forma è frutto di azioni compiute: è una conseguenza, e non l’ho decisa io! Quantomeno non completamente… (n.d.r. ride).
L’esecutore deve essere bravo a distrarre e distrarsi dall’informazione data in partitura attraverso intenzioni esplorative proprie. Quando ciò accade, l’ascoltatore attento, il compositore e il musicista sono dinanzi a un atto compiuto di suono.
AS: Mi hanno colpito i tuoi post sulle sperimentazioni Verticali che hai condiviso sul tuo profilo IG: vedendoli ti ho immaginato come un alchimista del suono.
AGT: Verticali è un progetto legato alla spazializzazione dei suoni che prende forma, in un certo senso, dal principio di cambio di destinazione d’uso di strumenti legati alla musica. È un principio a cui sono molto legato che mi ha portato alla realizzazione di Hb-Suit3. In Verticali, gli strumenti utilizzati in modo improprio sono due archetti per violino. Questi da “mezzo” di sfregamento divengono “oggetto” di sfregamento: gli archetti sono fissati in verticale alla spalliera di una sedia in modo da poter far scorrere, ciò che va fatto vibrare, sull’intera lunghezza dell’arco. In prossimità di ciascun arco ho disposto un microfono che ho destinato alla coppia di diffusori, in modo che l’ascoltatore possa sentire a destra ciò che viene suonato alla sua destra, e viceversa. Quantomeno nella parte iniziale, poiché dopo le cose si complicano: ad esempio un oggetto sfregato a destra può essere direzionato al microfono di sinistra e via dicendo. Se ascolti con le cuffie, ti accorgerai che ai movimenti compiuti dagli oggetti all’interno dello spazio delimitato dai microfoni, corrisponde uno spostamento del suono da destra a sinistra. La spazializzazione dei suoni è una pratica quasi imprescindibile per musica elettroacustica: di ciò che hai visto su IG è interessante che la spazializzazione, solitamente operata digitalmente, qui è realizzata principalmente in modo manuale… Forse vado nella direzione opposta di chi tende a umanizzare la macchina (n.d.r. ride). Questo è il principio di Verticali, e questi spostamenti, che man mano cominciano a rispondere in modo apparentemente accidentale, dovrebbero cominciare a farti perdere un po’ coscienza di qualcosa.
AS: È corretto pensare che con la tua ricerca tu intenda impartire una sorta di ceffone sonoro?
AGT: Amo i ceffoni che si ricevono dai maestri. Ho incontrato, grazie all’ascolto di moltissime interviste, tanti maestri, soprattutto non musicisti, che non sanno di avermi come allievo: danno dei ceffoni capaci di risvegli. Certamente svegliano chi vuole essere svegliato.
Ad ogni modo i ceffoni preferisco riceverli.
AS: Forse anche il risveglio è questione di scelta, non un’azione passiva.
AGT: Temo proprio di sì ed è una mia costante. Una condizione di allerta mentale. Ma è la parte involontaria, cui non posso proprio sottrarmi, che determina interamente il mio fare. Per questo utilizzo il termine urgenza.
L’urgenza a cui mi riferisco non va ricercata nei tempi in cui un lavoro va concluso, non quella, ma nella necessità di trovarsi, quanto prima, nel lavoro. Può ad esempio risolversi in poco tempo se ho un lavoro iniziato… Penso ad esempio a una giornata in cui gli ostacoli quotidiani (fare la spesa, ospiti accidentali ed accidenti simili!) ti portano in direzioni diverse. In questo caso avverto l’urgenza di, in qualche modo, fare, anche per poco, del lavoro. Anche solo per appuntare qualche idea sul suo svolgimento, per determinare una traiettoria, oppure semplicemente rafforzarla se ne ha già una. Questo placa temporaneamente l’urgenza. Dico che se non mi trovo un po’ nel lavoro, la mattina non posso fare altro senza abbastanza insofferenza. Nei momenti in cui non ho lavori in svolgimento poi, l’urgenza è massima. In quei giorni meglio trovarsi con una sufficiente scorta di viveri (n.d.r. ride).
L’urgenza è ciò che sento in me e in chi lavora al mio stesso livello di curiosità: se incontro un’altra persona che condivide il mio stesso livello di curiosità, allora possiamo parlare di urgenza, ossia ciò che senti come necessità. Di questo costante istinto dell’impulso al fare.
Ho urgenza e non riesco a concepire l’arte priva di una data componente individuale di necessità.
AS: Parlando di urgenza coinvolgi appunto un altro fattore importante: la curiosità.
Immagino questo binomio sia per te fondamentale per la ricerca e per le tue sperimentazioni.
AGT: Anche la curiosità è una costante. La curiosità muove tutto. È l’albero delle idee.
La sola tecnica serve a poco: più sai e di più curiosità hai bisogno.
Crescendo si perde l’aspetto migliore della nostra curiosità, e la tecnica annulla quella che ci rimane pregiudicandoci anche la possibilità di immaginare un oltre. Allora la curiosità va alimentata costantemente. Ad esempio la mancanza di strumenti può stimolare la curiosità e far esplodere la creatività. La mancanza di mezzi aguzza l’ingegno: non avrei mai composto la Suit3 se avessi avuto un sintetizzatore tra le mani.
AS: Prima, per parlarmi di De_Frammentazione, mi hai confidato che la proposta telefonica di quel lavoro ti giunse poco dopo la morte di tuo padre. Ora parli di urgenza: immagino quella telefonata abbia innescato un senso di urgenza in te.
Ti chiedo inoltre: se fossi stato presente e spettatore a Selinunte in quel luglio 2019, pensi che ascoltando il contesto sonoro avrei conosciuto qualcosa in più di te?
AGT: Quella è urgenza a due livelli: il primo muove il nostro agire, mentre il secondo indirizza questo agire verso un altrove. Subito. Nella musica in genere credo sia utilizzato il secondo livello. Credo che il mio fare sia più istintivo che di ispirazione, e che questo secondo livello rappresenti una eccezionalità.
Per rispondere all’altra tua domanda, credo di sì. Ma il contesto sonoro non lo avresti ascoltato, lo avresti avuto! (n.d.r. ride) Ti dico di sì perché tu hai curiosità… Credo che possiamo conoscere solo ciò che vogliamo conoscere: tutto sta nell’intenzione.
AS: Posso applicare il concetto di urgenza anche all’incontro con un’idea? Quando appare e scatta l’urgenza di afferrarne il pensiero.
AGT: Anche questa è urgenza. Quando vivevo a Trapani riempivo le piastrelle della cucina di fogli A4 bianchi: la cucina era completamente piastrellata da terra a un metro e settanta circa e sul bordo delle piastrelle prendevano posto le matite utilizzate per fissare idee volanti (la copertura delle piastrelle coi fogli bianchi era utile soprattutto a non avere l’impressione di vivere dentro una piscina vuota!).
L’urgenza è quella di entrare e stare nella dimensione del suono. Pensa al pesce rosso che scappa dalla mano per tuffarsi nell’acqua: mi riferisco esattamente a questo.
AS: Reputi ci sia un po’ di spiritualità nella tua ricerca?
AGT: Per nulla. Amo le citazioni e mi piace rispondere alla tua domanda con le parole (vado a memoria) di Margherita Hack. Le avevano chiesto: «Credi in Dio?» e lei: «Credo nella materia».
Fantastica! Dicendo questo non intendo apparire più terreno di quanto non sia – il mio cognome è già abbastanza impastato di terrenità.
Credo nelle possibilità e soprattutto nel sapere e nella conoscenza.
Sapere non significa riempirsi di dottrine, sapere significa avere per ogni risposta altre cento domande (questa certamente mi è stata trasmessa “via ceffone!”).
Credo nella musica e la musica non la vedi…
Da quando vivo in campagna seguo il ciclo naturale. La semina, i germogli. Crescita e raccolto. Gli scarti dei frutti divengono fertilizzante per i terreni a riposo. Sono testimone della chiusura del cerchio. Credo nel ciclo vita – morte. Anche se, ogni anno, una primavera.
Mestre – Aragona, giugno 2021
scrittura, giugno 2022