Due scomparse eccellenti nel mondo del jazz e dell’improvvisazione libera. Una è quella avvenuta in agosto del violoncellista Abdul Wadud, musicista che ha tracciato un importante percorso con influenze classiche per la free improvisation, ma che date le evidenze del riscontro mediatico non mi sembra sia stato ricordato a sufficienza. Oltre a By Myself, un album che traccia un solco nella gestione dell’improvvisazione al violoncello, ci sono le collaborazioni eccellenti con James Newton ed Anthony Davis, documentate in alcuni albums. Di tutto questo potete trovare commento in un articolo che scrissi proprio su Newton e le prove del trio (leggi qui).
L’altro è il sassofonista Pharoah Sanders. Nelle sue vicende artistiche c’è un pò dell’evoluzione del mondo negli ultimi 70 anni. Sanders acquisì consensi nel 1965 grazie ad Ascension di John Coltrane, dove la partecipazione era fisica e spirituale: in virtù dei progetti di Coltrane, che cercava sassofonisti in grado di andare overblowing sullo strumento, Sanders si trovò membro insostituibile di una sfida che i musicisti jazz stavano compiendo sulla gamma dei registri del sax, estensioni e rafforzamenti di un’area nella quale Sanders intervenne con il suo sax tenore diventando quasi immediatamente uno dei migliori del lotto dei jazzisti americani dell’epoca. Nel giro di due anni Sanders partecipò a moltissime registrazioni di Coltrane, diede il suo contributo a Symphony for Improvisers di Don Cherry e iniziò le fortunate pubblicazioni per Impulse! dopo l’esordio di Pharoah’s First alla ESP-Disk, un quintetto di free jazz con musicisti poco conosciuti, dove non è ancora messo a fuoco lo stile: le registrazioni Impulse! partono da Tahuid nel 1967 e finiranno con Elevation nel 1973, dischi che rivelano un musicista in grado di suonare tonale con l’immediatezza della melodia e di portare a paradosso l’energia spirituale di quei tempi, con zone beyond limit fatte di vere e proprie esplosioni di sassofono sostenute da tanta modalità e referenza a quell’indole afro-americana che cercava contatti con gli impianti musicali e culturali del resto del mondo (nel caso di Sanders soprattutto l’Upper Egypt e il Lower Egypt -prendo in prestito il titolo di un suo pezzo in Tahuid, che rende bene l’idea della diversità degli approcci delle aree divise-, il Giappone con i suoi simbolismi).
Per Karma, Sanders mette in piedi una suite con molte zone di differenziazione e rappresenta lo spiritual jazz ai suoi massimi livelli: lo yodel e i testi sintetici del cantante Leon Thomas, che gli regalò la celebre frase “The creator has a master plan / Peace and happiness for every man“, conquistarono l’immaginario del pubblico. Riportato ad oggi, Karma elargisce un’incredibile atmosfera gioiosa e una volontà di pacificazione, le oscillazioni della musica e il senso di cambiamento che investiva i musicisti afro-americani dell’epoca è tangibilità che merita un posto d’onore nell’ampia rosa di albums succubi del messaggio di Coltrane di A Love Supreme; ma personalmente ritengo che Sanders raggiunse il massimo del suo percorso artistico in Jewels of Thought, in cui è vero che compaiono le usuali zone “miste”, graduali aree di armonia sfocianti in durissime rappresaglie libere degli strumenti, ma quest’ultime vengono esasperate in un effetto catartico frutto di una ricerca non convenzionale delle dissonanze e delle abrasioni su sassofono, contrabbasso e pianoforte (al pianista Lonnie Liston Smith va dato il merito di aver sostenuto perfettamente le idee di Sanders).
Sanders aveva trovato una sua formula musicale, sebbene molta musica che arriverà dopo Jewels of Thought non possiederà più quella creatività e vastità di elementi di Karma o dello stesso Jewels of Thought; albums come Black Unity o Village of the Pharoahs, però, si pongono come parziali deviazioni del suo usuale idioma e come tali vanno scoperti, l’uno perché è un epigono con qualità particolari dell’Ascension di Coltrane, l’altro perché oltre a perdere l’umore gioioso che normalmente contraddistingue Sanders, attua un consunto vocale e un’apertura triste all’influenza orchestrale, che si inseriscono probabilmente nell’insoddisfazione dei risultati ottenuti dalla controcultura della fine dei sessanta.
Direi che è qui che si smorzano gli impeti di Sanders, la cui musica entrerà in una profonda fase di normalizzazione e francamente non trovo elementi sufficienti per avvalorare la critica jazz a proposito di lavori come Journey to the One o Rejoice, dove la musica è solo uno scheletro per l’unica realtà oramai disponibile, ossia il modo di suonare sassofono di Sanders, qualcosa che si ritrova intatto a distanza di anni nella collaborazione con Bill Laswell, in una prospettiva aggiornata sull’ambient music e il drum’n’bass (With a Heartbeat), nella validissima collaborazione con il Chicago Underground/São Paulo Underground (Primitive Jupiter e Spiral Mercury) e persino nel progetto del musicista di elettronica Sam Shepard con la London Symphony Orchestra in Promises.
RIP Pharoah Sanders