Avram & Dumitrescu – Sacrum et Profanum

0
381

Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.

Ascoltando l’opera dei grandi maestri dello spettralismo rumeno, molto spesso si stenta a credere che utilizzino gli stessi mezzi degli altri compositori: parlare di un’estetica visionaria, nel loro caso, non è una forma di iperbole, bensì il mero, obiettivo riconoscimento della loro capacità quasi sovrumana di trascendere i limiti fisici della strumentazione acustica – per non parlare della gravosa eredità di stili e tradizioni che si portano appresso.

Per questa ragione Ana-Maria Avram e Iancu Dumitrescu sono stati e rimarranno ancora a lungo all’estrema avanguardia rispetto a tutti gli altri compositori: poiché con loro tutto ha origine da e necessariamente ritorna al Suono in quanto materia grezza e bruciante, non “eseguita” ma come scavata dall’interno e riversata nello spazio circostante senza abbellimenti. Una ricognizione archeologica, la loro, che sembra attingere al ‘tempo profondo’ dell’universo, a una fenomenologia ancestrale che l’evoluzione umana ha tralasciato nel perseguire una bellezza idealizzata, presuntivamente “assoluta”, e in definitiva vana.

Attraverso un approccio radicalmente eterodosso alle tecniche strumentali, ogni brano di Avram e Dumitrescu diviene una genesi tragica e sublime, il varco su di un orizzonte sonico sino a quel momento ignoto, forzosamente scoperchiato come il vaso di Pandora. In mancanza di ulteriori appigli tassonomici, la critica non ha esitato a definirlo “iper-spettralismo”, termine che al contempo lo accomuna e ne denota lo scarto rispetto alla più notoria scuola francese: ma laddove quest’ultima arrivava a dissezionare con intento quasi scientifico le proprietà dei fenomeni acustici, la compagine rumena si rifà al metodo del mentore e direttore d’orchestra Sergiu Celibidache – una fenomenologia di matrice husserliana commista alle filosofie orientali e alla meditazione trascendentale – per ancorare l’atto musicale al momento presente quale istanza unica e irripetibile; è anzi la musica stessa a plasmare il proprio tempo nella ricerca dell’Urformen, la forma prima e originaria della realtà sonora cui la partitura, in un certo senso, può soltanto alludere.

La prematura scomparsa di Ana-Maria Avram (1961–2017) ci ha privati di una voce preziosa e complementare a quella del marito Iancu Dumitrescu (*1944), ma il suo nutrito catalogo di opere risulta a tutt’oggi (purtroppo o per fortuna) in gran parte ancora da scoprire. Edita presso la loro etichetta-simbolo Edition Modern, la registrazione non integrale del concerto tenuto dall’ormai leggendario Hyperion Ensemble in occasione del Sacrum Profanum Festival di Cracovia, il 30 settembre 2017, vede una netta prevalenza di materiale a firma Avram con quattro brani su cinque: una selezione che nella sua inevitabile parzialità offre uno sguardo piuttosto completo sull’avventurosa produzione della compianta compositrice, incursioni che affrontano il potenziale strumentale ed elettronico con pari intransigenza, spesso fondendoli in sintesi abrasive e adrenaliniche.

È il caso dell’inaugurale “Murmur” per ensemble, tanto concisa quanto elementale nell’evoluzione del suo respiro organico, un sussulto di esistenza che dall’inerzia dello stato embrionale si anima di un magmatico ribollire, spingendo la sua ipertrofia verso il nero ignoto della risonanza cosmica evocata dal soundscape artificiale, nastri rovesciati che sembrano alludere alla fatale forza d’attrazione dei buchi neri. Un natura renovatur che pervade anche l’analogo “Mineral Matters II”, la cui struttura si espande e ritrae secondo leggi imperscrutabili, alternando mormorii prossimi all’afonia e improvvisi, deflagranti ‘tutti’ i cui timbri alterati entrano in violenta e alfine irreparabile collisione.

Si riduce ai minimi termini la strumentazione ma il processo – come l’effetto suggestivo – rimane intatto. In “Axis VII” sembra dispiegarsi un intero ciclo di vita tra le diverse materialità del contrabbasso: raccogliendo l’imprescindibile eredità del fuoriclasse Fernando Grillo, il giovane statunitense Zach Rowden estrae (ed astrae) ipertoni, fonemi residuali, stoccate percussive dal corpo “resuscitato” dell’imponente strumento ad arco, ne capovolge il simulacro acustico in un tripudio di gesti furiosi e tuttavia consapevoli, nell’ardente ricerca del suo nucleo pulsante.

La voce e il suo doppio sono invece le elusive, fantasmatiche presenze che popolano la stereofonia di “Nouvelle Archae”: lamento atavico e canto sacrale, la performance destrutturata di Diana Miron porta con sé dense eco novecentesche del WDR di Colonia e dello studio di fonologia milanese, dal ‘Gesang’ di Stockhausen alla ‘fabbrica illuminata’ di Nono, passando per l’ ‘Omaggio a Joyce’ di Berio via Cathy Berberian, frammento di un riverrun che non conosce principio né fine ma solo l’inarrestabile flusso del suo tempo interiore.

Infine arriviamo all’opera commissionata dal festival polacco a Iancu Dumitrescu: “Sacrum et Profanum” affianca all’ensemble le chitarre elettriche dei guru dell’underground Oren Ambarchi e Stephen O’Malley, entrambi già coinvolti nelle ultime produzioni del decano Alvin Lucier, mentre il secondo è stato anche protagonista di un progetto col binomio rumeno sotto l’egida del GRM. Tipicamente subdolo nel suo sviluppo lento e vorticoso, il brano di Dumitrescu si regge tuttavia su un bordone dominante che tende a riequilibrare gli sconnessi grappoli di rumore organizzato, ultimi rigurgiti inconsulti di una galassia prossima a ritrarsi nel paradossalmente fertile nulla dal quale è provenuta.

Dimensione micro- e macroscopica divengono indistinguibili, arrivando a elidersi, nella prospettiva vertiginosa di queste inusitate creazioni, con ciò rappresentando forse la realtà musicale che meglio di ogni altra riesce a incarnare le leggi fisiche della relatività. L’opera potenzialmente inesauribile di Avram e Dumitrescu non può in alcun modo sedimentarsi come lingua morta, ma al contrario, per sua intrinseca attitudine, ancora e ancora tornare a farsi materia viva.

Personnel: Tim Hodgkinson, Yoni Silver – bass clarinet; Adam Scheflan, Albert Márkos, Andrei Kivu – cello; Shmil Frankel, Zach Rowden – double bass; Oren Ambarchi, Stephen O’Malley – electric guitar; Maya Dunietz – flute, piano; Alex Yonovic, Chris Cutler, Laurențiu Coțac – percussion; Edward Lucas – trombone; Tijana Stanković – violin; Diana Miron – violin, voice

Per ascoltare Sacrum et Profanum clicca qui

Articolo precedenteMirela Ivičević: Scarlet Songs
Articolo successivoRiduzionismo portato al quattro: Guðmundur Steinn Gunnarsson
Critico e curatore musicale indipendente, è autore del blog Esoteros (www.esoteros.net), dove pubblica recensioni in italiano e inglese di musica “altra”– sperimentale, avanguardia, improvvisazione e classica contemporanea. E’ stato redattore di Ondarock per 10 anni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano e dedicato alla promozione delle più interessanti espressioni della musica elettronica e di ricerca contemporanea; dal 2016 Plunge è guest curator della prestigiosa rassegna di musica elettronica Inner_Spaces presso l’Auditorium San Fedele.