Ivo Perelman: Fruition / Reed Rapture in Brooklyn

0
483

T.S. Eliot affermava che “…l’unico modo di esprimere le emozioni in una forma d’arte è trovare un correlativo oggettivo...”, in sostanza far ricorso nell’espressione artistica ad eventi e situazioni che si correlano fortemente con le emozioni che si vogliono dare, in modo che attraverso l’esperienza sensoriale si possa rievocare l’emozione pensata. Allargando di molto il concetto su cosa intendiamo per emozione, la teoria di Eliot può essere ben applicata anche a sentimenti o idee ben precise sui quali si possono costituire delle correlazioni oggettive: nella musica di Ivo Perelman, per esempio, si potrebbero raccogliere tantissimi elementi che vertono su questa corrispondenza grazie alla capacità del sassofonista di saper trovare il fuoco di una congettura musicale.
In Fruition, CD di recente pubblicazione che riporta in auge il duo con il pianista Matthew Shipp, Perelman stavolta si affida a qualcosa che verosimilmente possa avvicinarsi quanto più possibile al gradimento emotivo tramite un percorso meno irto di asperità e più aderente all’emersione di un flusso musicale omogeneo, con climax misurati, meno evidenti rispetto alla media da lui prodotta e con più caratterizzazione jazz. Naturalmente questo avviene senza retorica, lavorando sulle modulazioni e sul fraseggio, sull’interplay che stana le correlazioni: una scala discendente può intercettare un momento di decadenza, una strana conduzione melodica o armonica può ritrarre un senso trasversale tra la gioia e l’incertezza, una linea di note di sax che germoglia in un ambiente pianistico articolato può trasmettere luci e ombre, sono invocazioni di un lirismo puro che rivendica una finzione nostalgica. Alla fine dei conti, il privilegio di sperimentare un “flusso” emotivo è quello di ottenere forse un’accesso esclusivo a quella legge fondamentale della musica che impone di scovare un aggancio alla realtà, quasi sempre vissuta tra distorsione e sogno irrealizzabile. Fruition naviga in queste acque e dà l’esatta misura di quanto forti siano le sensazioni dei due musicisti.

Un’altra qualità di Perelman è l’ambizione nel tentare di portare le sue relazioni musicali al di sopra dei livelli consentiti. E’ un musicista che legge la stampa specializzata, studia attentamente i risultati raggiunti dai suoi colleghi ed è in grado di costruire un legame modificando alacremente i parametri dell’interazione. E’ anche attratto dalla costruzione monumentale nell’arte che per svilupparsi ha bisogno di grandi spazi e impensabili incontri: con Shipp abbiamo sperimentato questa “edificazione” musicale basata prima sul cosmo e poi sulle esibizioni elaborate per Special Edition Box, modi per creare -passatemi le similitudini- l’equivalente artistico dei dettagli di una grande chiesa occidentale, delle estensioni gigantesche delle Ninfe di Monet o, restando alla musica, della pulsione dei multipli organizzativi di una gigantesca opera. Questo istinto di grandezza si trova parzialmente nei suoi atipici String quartets (4 volumi) e nel box di Brass and Ivory Tales, un summit di pianisti-improvvisatori tra i migliori viventi: l’idea di Perelman è di continuare su questa linea intercettando strumenti differenti e Reed Rapture in Brooklyn, recentissima pubblicazione discografica per Makahala Music, mette in campo la collaborazione con 12 eccellenti, storici improvvisatori di strumenti a fiato, nella maggior parte sassofonisti a vari registri e clarinettisti.

L’aspetto fondamentale di Reed Rapture in Brooklyn e dei suoi dodici duetti è l’adattamento che Perelman compie nell’interplay, poiché se è vero che non c’è una minima idea di base su come condurre l’improvvisazione è anche vero che è innegabile il rispetto dello stile e del tipo di espressione che ha caratterizzato ognuno degli artisti in questione: è sulla radice espressiva che Perelman ha organizzato questi incontri!
Chi conosce Perelman sa riconoscere benissimo la sua favolosa espansione al sassofono tenore, dove le note escono muscolose e sinuose a seconda delle fasi improvvisative, sono esempi di microtonalità latente che è frutto dell’esperienza e delle tecniche indotte da un certo tipo di soluzioni trovate sull’imboccatura. Ivo le mette davanti ai duetti, come materia pregiata che si confronta con le altrettante, decifrabili carature espressive dei suoi partners, che qui di seguito vale la pena di ricordare nella loro essenza:
1) di Joe Lovano va estratto il suo senso di fluidità nel suonare il sax, una circostanza che ci permette di riconoscere il suo stile distintivo: in Rush Hour, un CD orchestrale del 1995 con gli arrangiamenti di Gunther Schuller, l’intro di Lovano in Prelude to a Kiss di Ellington è quanto di meglio si può enucleare per caratterizzarlo; se avete in testa quel soffio leggero con cambio di velocità, sarete nella condizione migliore per raccogliere informazioni da un duo che, date le condizioni, sprizza energia in differenti maniere;
2) con Tim Berne al sax alto si va verso la multifonia e la concitazione espressiva; Berne ha uno stile intenso ed elettrizzato, è un agitato Schoenberg del sax improvvisato, per via delle frequenti linee melodiche atonali che sviluppa negli assoli; con Perelman le avventure si fondano su una gestione magnifica delle fasi di rilascio e tensione e mentre Perelman raggiunge le frequenze alte con la sola magia delle note, Berne vi fa sprofondare nelle anomalie di armonici e multifonici;
3) invece che al sax tenore, David Murray incrocia Perelman al clarinetto basso, in un set che vede Murray lavorare parecchio sui parametri della melodia e del ritmo, quest’ultimo spesso una scansione che fa da contrappunto ai giri di note di Perelman; Murray ha un linguaggio jazz particolare, fondamentalmente è un post-moderno che però ha molto rispetto della tradizione e il duetto con Perelman è un modo per avventurarsi in una sorta di territorio da call and response, pieno di divergenze e circolarità del rapporto sonoro;
4) soffio screziato e discrezione dello sviluppo improvvisativo sono le principali caratteristiche del sax di Lotte Anker; alternandosi all’alto e soprano, la Anker usa la dissonanza e la tecnica estensiva alla stessa maniera di un arrangiatore musicale, in modo da costruire delle trame implicite. Con Perelman si crea un’intesa proficua, in alcuni momenti una perfetta sintonia su angolature, agilità e somiglianze espressive, senza che il dialogo perda un minimo di attrattiva;
5) di Ken Vandermark si conosce l’istinto improvvisativo teso all’evoluzione veloce dei suoi legati e degli eventi musicali; tale qualità viene qui portata a compimento tramite il clarinetto, note quasi inghiottite da una parte ma anche un flusso introspettivo dall’altra;
6) buona enfasi va data anche al duetto con Roscoe Mitchell, dove quest’ultimo performa con il sassofono basso: scale, timbro e contrappunti si insediano in una memoria a sé stante della nostra mente uditiva e una sorta di partitura immaginaria, in cui sono previste alcune dialogicità esecutive, è quanto emerge dall’interazione; Mitchell ha sempre fatto una grande gestione degli spazi musicali e Perelman fa di tutto per risaltarli e farli competere con una dialettica non invasiva;
7) sul sax baritono Ivo si confronta con James Carter in una sorta di mimetismo degli intenti e del punteggiamento sottocutaneo: sembra di giostrare in un circuito, con esplorazioni e ripetizioni che si susseguono in una forma improvvisativa energica e dissonante, talvolta anche con punte frequenziali altissime; una testimonianza di stile di Carter si trova in Four, dove egli costruisce tante soluzioni intorno ad un archetipo di be bop;
8) la collaborazione con Jon Irabagon, che suona il sopranino e il soprano slide, si stende su una serie di suoni atipici: sornioni, strascicati, addolorati o addirittura teatralizzati, questi suoni portano con sè felici intuizioni che potrebbero avere persino una chiara percezione visiva; Perelman e Irabagon portano avanti i benefici della free improvisation in un ambito in cui non c’è dramma né lentezza, ma solo la certezza della buona riuscita di una commedia che si gioca nelle stanze dell’anticonvenzionalità;
9) il doppio tenore Perelman lo realizza con John McPhee. In un clima snob ed ispettivo alla Henry Mancini, i due musicisti si accordano per un’improvvisazione dove l’uno si mantiene sui registri superiori e l’altro su quelli inferiori, ma sempre nel bel mezzo di una serie di soluzioni melodiche ben diversificate e sviluppate, con John che usa spesso anche la sua voce in un growl o in un bewitched style, un ulteriore sfogo creativo che attinge al misterioso;
10) Colin Stetson è il partner di Perelman per il sassofono contrabbasso; i ruminamenti prodotti su questo strumento quasi si confondono tra concezione melodica e timbro, ma è ben evidente che con Perelman è importante la ricerca di una tensione reciproca, come fondo imprescindibile del discorso musicale. Tra nebulose timbriche, suoni di accrescimento e un lirismo non preventivabile, i due musicisti dimostrano di avere un ottimo accordo su quanto è possibile ottenere dalla combinazione dei loro strumenti;
11) una fantasia di azioni aperte ed elettrizzanti, con una gamma di sensazioni che alza il velo su una sollecitudine espressiva, è quanto si ascolta nel duetto con Vinny Golia, che suona clarinetto e corno di bassetto; Perelman sente la necessità di un’interazione continua con questo mostro sacro degli strumenti a fiato, un supporto che è la soluzione migliore per accogliere quell’inventiva che Golia dimostra sempre di possedere nella performance;
12) l’improvvisazione con Dave Liebman è invece strategica e nostalgica al tempo stesso; sembra provenire da una stradina buia, non parla bene il linguaggio del Blue Note ed è profondamente malinconica; i due sassofonisti dialogono con maestria cercando di smorzare la qualità dei toni o allungando i sostenuti, si creano così dei bellissimi incespicamenti o quadretti di indagine introspettiva che solo l’improvvisazione a certi livelli sa offrire.

Nella stesura di questa lettura veloce fatta su Reed Rapture in Brooklyn non prendo naturalmente in considerazione le riflessioni ulteriori che possono scaturire da un confronto storico con duetti aventi simili caratteristiche, non c’è lo spazio per far questo in una recensione. Tuttavia, avremo modo di ritornare sul summit di Perelman poiché questo cofanetto da 12 cd sarà prima o poi accompagnato da un documentario di 2 ore fatto da Don McGlynn, cineasta del jazz, il quale potrà avvalersi di interviste con i musicisti che hanno partecipato al progetto di Perelman, delle parole del critico jazz Gary Giddins e di tante riprese effettuate durante le registrazioni. Il documentario sarà pronto per il prossimo anno nei maggiori festival del mondo.
Nel frattempo, long life to Ivo!!

Articolo precedenteNew Oxford Brevity: Pat Thomas & Dominic Lash
Articolo successivoAnthony Cheung: Music for Film, Sculpture, and Captions
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.