Strati, intonazioni discordanti, politiche dell’accostamento

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Novità discografiche da Setola di Maiale.

Black Strata è il nuovo lavoro solista del flautista Massimo De Mattia. Si tratta del suo quinto lavoro in solo dopo Stratos (2009), Pulp (del 2014 con registrazioni del 2005), War Flute Machine (2014 con registrazioni del 2004) e Meats (2015 con pezzi dell’anno precedente) ed è differente da essi, poiché evidenzia una temporalità aggiornata in cui l’espressione del flautista si è fatta sempre più ricercata. E’ strutturato in 21 libere tracce, da pochi secondi a qualche minuto di durata, che intercettano molte tecniche estensive sul flauto, frutto di un continuo esercizio giornaliero che naturalmente non mira solo al mantenimento di un’elasticità commisurata alla difficoltà di quanto suonato, ma anche alla scoperta e alle possibilità ulteriori che le tecniche possono offrire ed è così raffinato e immerso nelle dinamiche contemporanee che quasi si potrebbe scambiare per un lavoro di un compositore che ha scritto appositamente per il flauto.
L’improvvisazione in sketches di Black Strata evidenzia un corto circuito della titolazione con quanto si ascolta (in sostanza l’unico appiglio che l’ascoltatore possiede nel momento in cui si approccia al cd), poiché non c’è niente del suo contenuto che fa pensare a strati minacciosi, cammini oscuri o deterrenti psicologici. La mia interpretazione è che Massimo si riferisse al “nero” nei termini dell’invenzione, del bisogno della rivelazione, come un ricercatore che nei suoi percorsi esplorativi trova stratificazioni non convenzionali sul suo flauto; in sostanza un passo in avanti rispetto ad armonici, trilli, soluzioni funamboliche o aggressive, perché votato alla ricerca di materia sonora pregiata e occultata.
Qualche esempio? Nella traccia 1, oltre ad ottenere una legnosità timbrica non proprio usuale del flauto, si avvertono microtonalità particolarissime sul tasto e dissolvenze che si intromettono in una struttura vagante e complicata ma decisamente incantevole; nella traccia 4 c’è un vibrato magnifico, delle insufflazioni delicate e una linea melodica che è l’equivalente emotivo di un raggio di sole (in alcuni momenti sollevata in eco, come ombra); la traccia 5 lavora sull’arpeggio con una serie di intralci, mentre la 8 si concentra su come arricchire le soluzioni nel volteggio attraverso alcuni interventi sulla respirazione e sul vibrato (sembra di restare sospesi su una fune!); dalla traccia 10 alla 13 Massimo lavora benissimo sulle frequenze dell’ottavino, come un picchio maturo che risale la china su intensità, velocità od ostruzioni, mentre dalla traccia 14 alla 17 ritorna il flauto, con plurime scoperte d’intonazione sulle insufflazioni, dilatate, ironiche, sfuggenti, forzate e spesso applicate in abbinamento a veloci cambiamenti della scala o a smottamenti della linea tonale; la traccia 18, poi, contiene una vibrazione incredibile di un tremolo.
Tutto questa operosità implicita avviene nel fascino di una musica avvenente, che emana benessere in ogni sua porosità. Black Strata è l’opera di un virtuoso dello strumento che qui scrive una parte del suo manuale sull’instant composition; ma è anche il risultato di un’attività libera, politicamente ben direzionata nel campo dell’improvvisazione ed educatamente reagente.

L’East of Mozart è un trio che nasce casualmente dal Monday Improvisers Sessions all’Hamburgerstr. 18 di Vienna, in un locale che accoglie sessioni libere di improvvisatori. In una delle serate musicali del 2020, una combinazione fortuita mise in comunione un veterano dell’improvvisazione austriaca al trombone (Stefan Krist) con due più giovani improvvisatori (Johanna Schlömicher al pianoforte e Michael Prehofer alla batteria), per un set che non solo piacque al pubblico presente ma fu anche la scintilla per la procrastinazione della collaborazione in trio, maturata poi in un CD ufficiale che l’etichetta di Giust non si è lasciata scappare.
East of Mozart matura in un clima musicale alternativo, free improvisation che mi pare possa avere un gancio, anche piuttosto consistente, nella musica di Sergey Kuryokhin e al riguardo, la lunga pantomima vocale di Krist in Пошли! penso lo possa confermare; è un’arte libera da legami generazionali, un’arte dell’invenzione che abbiamo conosciuto con lo sfortunato pianista russo, il cui pianismo sembra anche in qualche modo replicato dall’obliquità dell’approccio della Schlömicher, che dà l’impressione di essere spesso alle prese con un piano non perfettamente intonato. Comunque è il coordinamento dei tre musicisti che funziona, l’improvvisazione è tenuta su sempre su binari di attenzione altissimi, nessuno schema precostituito se non quello dell’interplay del momento performativo, che si fonda su motivazioni topiche che coinvolgono l’esteriorizzazione teatrale e la psicosi dadaista, portatori di una stravagante nevrosi della musica, tarata anche su un’inclinazione strumentale particolare, le strofinazioni su corde e pelli, le poliritmie riprese dall’incognito della memoria e i borbottii deviati del trombone.
East of Mozart è dunque suonato con intelligenza mista a sorpresa, è musica vitale che si prende tutto lo spazio di cui ha bisogno e risponde a quella massima di Leo Feigin che ha sempre invitato ad un ascolto dell’improvvisazione diviso tra l’investigazione e la passione, “music that asks questions, provokes debate, generates ideas...” e tra le prime cose che questa musica chiede c’è lo sforzo che richiede al suo fruitore, ossia di dare un taglio alle contraddizioni musicali e politiche dell’Occidente (che equivale a dire anche rifiutare le convenzioni occidentali).

Secondo lavoro su Setola per il No Base Trio (Jonathan Suazo a sassofoni e flauto, Gabriel Vicéns alla chitarra elettrica e Leonardo Osuna alla batteria). NBT II è jazz più maturo rispetto al primo episodio del trio portoricano grazie ad una focalizzazione più chiara sul tipo di relazioni improvvisative e la concettualità che lo sostiene. Oggi il jazz porta con sé un peso, quello di creare tante storie ambigue che si riportano ad un passato che non sempre è stato un buon veicolo di valorizzazione sociale o musicale, perciò i tre musicisti sono ricercatori di modelli buoni, spendibili in un momento storico in cui le nostre menti subiscono una pressione incredibile per via delle distopie che ci circondano: cogliere opportunità in queste situazioni significa anche farsi carico di tanta responsabilità in termini di conoscenza del jazz. Da questo punto di vista generale, NBT II intercetta alcuni archetipi del jazz intesi sotto la luce del breve paradigma, mostrandoli con un processo di riadattamento: il sax tenore di Suazo fa pensare ad un riduzionismo stilistico di Shorter così come il suo flauto è un prompt di Yusef Lateef, l’elettrica di Vicéns sta Scofield e Frisell, i tempi di Osuna hanno una lenta propensione sulle rotte di Tito Puente; scendendo nel particolare, sarà difficile che questi si manifestino tutti assieme e in alcuni momenti ci sono delle forti deviazioni di percorso, una cosa che succede nella libera improvvisazione di ST [2] dove i modelli jazz si infrangono parecchio o nella più sommessa ST [7] annodata in un flusso drone apparente su cui si aggrappano le estemporaneità dei musicisti. Anime che respirano.

Con un’ottica acuta di movimento tra generi popolari si muove anche il musicista Guglielmo Pagnozzi, sassofonista che nei novanta ha contribuito ad arricchire la scena bolognese del jazz, in quegli anni immersa in un favorevole periodo di attrazione culturale e di creatività. Si fondavano associazioni (Pagnozzi creò le Bassesfere), si intercettevano scambi politico-culturali (Pagnozzi suonava kletzmer, musica andalusa, hip-hop, musica napoletana) e si suonava con artisti di forte peso generazionale (Pagnozzi lo fece con Steve Lacy, Lester Bowie e tanti altri). Per lui c’è stato un lungo periodo di pausa, interrotta solo qualche anno fa quando il sassofonista torinese si è riaffacciato sulle scene musicali tramite la consulenza artistica teatrale e piccole formazioni: Gentle Heartquake è il suo nuovo cd in quintetto con Angelica e Lauriola a chitarra elettrica e basso, Alfonsi e Mineo a batteria/percussioni, ed ha parecchio groove dentro.
La title track, in particolare, è piena di densità musicale e politica, poiché in quasi dieci minuti di sviluppo regola compatezze funk, subdole caratterizzazioni jazz-rock, accenni di allucinazione psichedelica e un pezzetto del proclama/incitamento di Lenin all’esercito rosso. Il jazz e dettami psichedelici si incontrano in Virus, dove Pagnozzi si sdoppia tra l’energia melodica del suo sax alto e il synth impostato sul timbro dell’organetto di Manzarek, mentre Steve è probabilmente un tributo a Ray Vaughan condotto sui sentieri della stravaganza, dove musica, brio e stranezza si coalizzano. La finale Alone è ispirata da Edgar Allan Poe, un’esposizione della diversità di pensiero che si sviluppa in modo anomalo, prima romantica, poi in preda ad un groove astruso che si nutre di synths spocchiosi e feedback di chitarra.
Gentle Heartquake fomenta la suggestione di un giudizio incontaminato su quanto la società esprime, realizza con l’immaginazione del jazz e del rock una sorta di invariabilità culturale, poiché quello che valeva cinquant’anni fa vale anche oggi: non ci sono molte testimonianze discografiche di Pagnotti oltre l’esperienza live (decisamente più ampia), perciò avere in mano questo disco significa anche celebrare un musicista di contrasto, sempre alla ricerca di un’ideologica terra tremante. E non è poco!.

Nel suo libro Über Pop-Musik, il giornalista Diedrich Diederichsen dichiarò che le musiche popolari non possono essere separate dai loro contesti poichè ognuna di loro fonda la propria autonomia su associazioni di immagini, tipi di performance o testualità legate a fatti o persone reali. Naturalmente tale principio è applicabile sic et simpliciter alla techno music, un genere che per molti studiosi della materia popolare è stato un contenitore linguistico nuovo. E’ da tempo che sono iniziati plurimi tentativi di costruire legami tra generi popolari e direi che sarebbe anche arrivato il momento di estrarre una lista di operazioni musicali in grado di mortificare il pensiero di Diederichsen o quanto meno di modificarlo.
Parlo di techno music perché in casa Setola Roberto Fega ha appena pubblicato i due cds di Folk!, un coraggioso tentativo di combinare l’elettronica con voci che si riportano a tradizioni popolari del canto e quell’elettronica ha una forte connotazione nella techno e nel campionamento. Fega ha utilizzato le linee melodiche di alcune canzoni di Mike Cooper (i ritornelli blues o country sono generi popolari), di cantanti orbitanti nel canto etnico-popolare (Arianna Consoli, Fabia Salvucci e Sara Marini), di cantanti dell’area romana (il Trio A Modo, Stefania Placidi) e cantanti con un profilo popolare particolare (Juliana Azevedo, portoghese frequentatrice dei generi popolari iberici, Abderrazzak Telmi, sostanza canora che viene dalla Gnawi music e Amy Denio, cantante passata attraverso molte stagioni della modernizzazione delle musiche popolari). Dopo aver acquisito la parte vocale, Fega costruisce un cappotto di elettronica rispettando una struttura fissa, il canone che solitamente impegna i cantanti in un’esibizione, ossia canto+musica, solo musica, finale canto+musica, però senza aggressività alcuna: Fega propone due realtà quasi a braccetto e lascia che sia l’ascoltatore ad interrogarsi sulla validità di ciò che ascolta. Va da sé che si crea uno scontro naturale tra le linee melodiche tonali da una parte e la fredda gelata accompagnatrice dell’elettronica, scontro che va dunque ricomposto su un piano razionale.
Dopo che Postcard from a trauma mi aveva fatto presagire il peggio, questo doppio volume di Folk! è materia che riconcilia su un percorso evolutivo di Fega: senza intervenire con manipolazioni sulla vocalità, l’intento del musicista romano è quello di trovare le giuste proporzioni dei due “regni” rispettando le singole provenienze. Si tratta solo di abituarsi all’accostamento non abituale. Ma i musicisti bravi sorgono per questo.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.