Archon – Works for violin, percussion and machine learning environment

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photo detail cover CD Archon

Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.

Sulle prime poteva sembrare una mera curiosità, un passatempo destinato come tanti altri a un rapido oblio, e invece era una sinistra profezia. Sono trascorsi appena un paio di anni da quando le app di intelligenza artificiale furono rese di dominio pubblico, offrendo alla comunità di Internet l’opportunità di mescolare input verbali attraverso i quali “ispirare” immagini poi generate autonomamente da un software.
Nel giro di poco lo zeitgeist informatico è divenuto anche quello estetico: Midjourney e Stable Diffusion sono, per certi versi, gli “artisti” visivi più originali e talentuosi attualmente in circolazione, laddove le avanguardie umane sembrano aver dato fondo alle proprie risorse e ripiegato sull’usato sicuro, spesso un manierismo della provocazione che gratifica soltanto gli stakeholders di un degenere mercato del gusto.

Non è propriamente una novità trovarsi a discutere di musica generativa, anche se finora si è trattato perlopiù di placide suite atmosferiche (Brian Eno), sonificazioni di dati grezzi (Alva Noto, Hecker) e destrutturazioni post-techno mutanti (Autechre). Molti altri, secondo diverse modalità, hanno assecondato istinti de-umanizzanti, sperimentato esercizi di sparizione autoriale, cercato insomma di scoprire quali musiche risiedano oltre i confini dell’intenzione e della coscienza. Queste fasi preparatorie, tuttavia, non riescono ugualmente ad attutire il senso di inquietudine – ma anche di morbosa eccitazione – che accompagna l’ascolto del software di sintesi Demiurge al lavoro, dietro impulso dei suoi artefici Marek Poliks e Roberto Alonso.

Il diabolico, ancorché incolpevole motore generativo facente capo alla piattaforma open source Archon emblematizza il trionfo e la tragedia di un progresso tecnologico che non ha potuto – né ha voluto – arrestarsi entro limiti ragionevoli, rigirando il coltello nella piaga di un soppiantamento prossimo venturo da parte delle macchine a scapito della stessa (e paradossalmente l’unica) specie che fosse in grado di progettarle.
È d’altronde facile immaginare con quale compiaciuta meraviglia i due sperimentatori, primi fra tutti, si siano prestati a questo gioco di specchi deformanti, lasciando che i loro concreti gesti sonori dessero il La ad una concitata orchestra fantasma il cui contrappunto, elaborato in tempo reale, risulta tanto estroso e sovrabbondante da oscurare quasi del tutto la sua matrice.

Certo, non è dandogli in pasto Mozart che Archon si sbizzarrisce in figure sonore tanto surreali ed elusive: è il violino di Roberto Alonso – successivamente in duo con il percussionista Christian Smith – a instradarlo verso il più puro atonalismo con tecniche estese memori dell’iconoclasta Lachenmann; un vocabolario di fischi e ruvidi stridori cui l’intelligenza artificiale risponde talvolta con improvvise sferzate elettroacustiche, talaltra con nebulose di armonie decostruite destinate a montare e dissolversi senza soluzione di continuità, dentro e fuori le quinte immaginarie dei canali stereo. Un saggio di stile tutt’altro che coerente e “levigato”, al punto che le sue trame schizoidi echeggiano incidentalmente certe derive del nuovo sound design elettronico, con particolare riferimento all’incubo digitale LEXACHAST di Amnesia Scanner e Bill Kouligas – un magma post-tutto che per lungo tempo ancora manterrà intatta la sua allarmante attualità.

Al nostro posto, un critico scettico e sufficientemente malizioso affermerebbe che Archon abbia ancora molto da imparare su come si fa la musica. Il punto è che per tale sorta di macchina l’apprendimento è, di fatto, il solo modus operandi concesso, l’unica condotta che le consenta di avanzare anziché girare a vuoto, aggiornando a ogni passo la sua deviante pratica relazionale. D’altronde, tecnicamente, essa nemmeno sa di produrre della musica, bensì interpreta e restituisce ogni input in forma di sterminate sequenze binarie, per loro natura scevre da qualsivoglia significazione; e con ciò, forse, avvicina l’essenza della Musica persino più di quanto pretendano di fare i nostri intenti espressivi.

Molte altre sono le questioni sollevate dal progetto in sé come dall’ascolto della prima di infinite possibili sue “riscritture”. Limitandosi alle implicazioni filosofiche, non si potrà fare a meno di riscontrare una tendenza accelerazionista, quel cupio dissolvi che spinge i due sperimentatori ad anticipare idealmente la loro soccombenza, pur senza privarsi dello spettacolo grand-guignolesco che vi prelude. Tuttavia il processo è ormai stato innescato e un dietrofront risulta improbabile, almeno fin quando non si sarà raggiunto il fondo del tunnel. Sono questi stessi, acerbi approdi estetici a invocare ulteriori sforzi in direzione di una musica potenziale non ancora rivelata: una missione distopica e folle, forse destinata a un clamoroso fallimento, e che perciò potrebbe finire per instillare nuova fiducia nelle capacità creative del fattore umano.

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Critico e curatore musicale indipendente, è autore del blog Esoteros (www.esoteros.net), dove pubblica recensioni in italiano e inglese di musica “altra”– sperimentale, avanguardia, improvvisazione e classica contemporanea. E’ stato redattore di Ondarock per 10 anni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano e dedicato alla promozione delle più interessanti espressioni della musica elettronica e di ricerca contemporanea; dal 2016 Plunge è guest curator della prestigiosa rassegna di musica elettronica Inner_Spaces presso l’Auditorium San Fedele.