Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.
Da sempre la natura ineffabile, essenzialmente inconoscibile della musica ci spinge ad associarla alle realtà visibili, a un immaginario che sia anche solo vagamente riconducibile a esperienze sensoriali ed emotive meno fatue. Nel tempo ciò ha fatto sì che si perpetuasse l’illusione di una capacità descrittiva intrinseca all’elemento musicale, un potere di suggestione tale da configurarlo quasi come una diretta estensione del mondo fisico, della natura e della storia umana. Chiunque rifiuti di assecondare questo ordine prestabilito, senza con ciò rifugiarsi in una stolida incomunicabilità, si pone al servizio di un’espressività “assoluta” oggi più che mai necessaria, restituendo alla materia sonora le sue incondizionate qualità originarie.
Per quanto in apparenza povero di maestri universalmente riconosciuti, ciò che rende in special modo interessante il momento storico attuale sono le varie forme stilistiche che il parziale “raffreddamento” delle avanguardie novecentesche continua ad assumere, tralasciando gli integralismi e le fazioni per conservarne unicamente l’incorruttibile spirito d’innovazione.
Ed è una trionfale rinascita atonale quella emblematizzata dal repertorio orchestrale della compositrice australiana Liza Lim (*1966), drammaturgia del soffio elementale e della più pura energia atomica, come grumi di lucente pigmento riversati sulla tela vergine dello spazio acustico. E quand’anche l’ispirazione rimanga nominalmente ancorata a tropi narrativi della tradizione sacra o profana, la loro resa compositiva è quanto di più lontano da una pedissequa adesione a schemi programmatici, mentre a sopravvivere in tutta la sua flagranza è unicamente lo spirito dell’immagine primigenia.
L’eterno femminino quale destinatario e custode della verità rivelata: potrebbe essere questa, per quanto sottile, la direttrice tematica sottesa alle suite del “Annunciation Triptych” (2019-22), le cui muse non sono invece che il pretesto per un libero e grandioso studio sull’estasi, un affresco plurale scevro da intenti narrativi e fedele soltanto al proprio afflato trascendente. Inevitabile che un simile scenario porti con sé l’eco dei poemi sinfonici di eredità romantica, laddove la solenne certezza filosofica di un Richard Strauss è però sovvertita, trasfigurata nei profili mistici di tre donne-simbolo desunte dalla storia della letteratura e del culto religioso, intermediarie di una conoscenza superiore e inconfutabile.
La poetessa della Grecia antica Saffo, celebrata nei secoli per i sublimi versi d’amore spesso rivolti al suo stesso sesso; la vergine Maria di Nazareth, visitata dall’arcangelo Gabriele per l’immacolata concezione del figlio di Dio; Fatima, ultimogenita di Maometto e la sola a perpetuare la discendenza del profeta islamico. Lim trasferisce il loro sguardo elusivo e ieratico in pagine orchestrali di perturbante, indefettibile vividezza: mercuriali spinte cinetiche – progressioni allucinate memori di Georg Friedrich Haas – attraversano alternamente le sezioni d’archi, fiati e percussioni, come improvvisi fasci di luce su un ordito iridescente la cui superficie vibra e sussulta di sempre nuovi effetti chiaroscurali.
L’attingimento a figure lontane nel tempo non dà adito ad alcun richiamo nostalgico: il nuovo linguaggio strumentale non ha orecchie che per il presente, fa proprio e attualizza ogni stimolo in un lampo di alterità sonora, un fremito di vita in sé stesso risolto dal quale possa sprigionarsi la rivelazione auditiva. Motivo per cui nemmeno un certo numero di ascolti darà fondo alla ricchezza di suggestioni evocate dal trittico di Liza Lim, permeato da un pathos totalizzante difficilmente intaccabile dall’azione erosiva del tempo.