Nel periodo più fulgido della scena musicale downtown di New York, ci fu un compositore/musicista che si mise in luce per una particolare intuizione. Nel momento in cui la corsa all’ibrido viveva il suo momento di grazia, Scott Johnson si avvicinò alla manipolazione elettronica di voci preregistrate, misurandole sulle altezze e sulla scansione ritmica, per essere in grado di dare origine ad una partitura: il ridere, il piangere, le modulazioni particolari della voce in una conversazione, i passaggi di una poesia, etc. diventavano il materiale di base di una nuova generazione di tonalità, partenza e accompagnamento della scrittura.
L’importanza di questa intuizione va inquadrata nella crescente voglia di sperimentazione e di cambiamento di una parte dei compositori americani, si diceva ibridi nella proposta, in un modo che potesse abbattere le frontiere dei puristi classici convincendoli sulla serietà della musica; Johnson amava ripetere che la musica contemporanea avesse già all’epoca bisogno di un risveglio e quel risveglio poteva provenire solo dalle influenze della musica popolare: i generi sottostanti a quella americana, ossia il rock e il blues, erano perfetti per dare il loro contributo alle abitudini della musica classica attraverso il loro strumento principe, la chitarra elettrica. Molto del suo collante ideologico si riversò lì, con modulazioni solistiche vivacissime dello strumento e tanta orchestrazione aggiuntiva ma per nulla ridondante.
Il cammino di Johnson prende forma da John Somebody, che resta il suo capolavoro: dopo aver selezionato e registrato le voci nei nastri, Johnson le manipolò in altezze e ritmo per ottenere una partizione. Le frasi vennero loopate e stratificate con una sincronizzazione. Johnson spiegò che: “…sebbene i toni del linguaggio siano raramente stabili o esatte, quando sono poste contro un centro tonale, l’orecchio tenderà a interpretare una frase come se fosse in un modo o in una chiave. Similmente, le sillabe ripetute si risolvono in un ritmo più regolare della realtà. Il raddoppio e il supporto strumentale creano una forte sensazione che il linguaggio sia a tempo e intonato…” (note di John Somedoby, mia traduzione dal suo sito). Su John Somebody, composta tra il 1980 e il 1982, si può ancora oggi verificare l’equilibrio degli impianti musicali oltre la validità tecnica dell’operazione, qualcosa che all’epoca poteva rischiare di risultare profondamente dispersiva nei risultati e che invece diventerà di speciale evidenza sia nella letteratura della chitarra contemporanea sia nella storia della vocalità, al suo ingresso nei teatri e nelle sale da concerto di musica contemporanea. Johnson pensava che se era stato possibile mettere in partitura il verso degli uccelli grazie a Messiaen, potevano egualmente essere trascritte tutte le associazioni della voce umana ricavate dalle manipolazioni.
Con una produzione misurata nel tempo e sempre condotta lungo la scia tecnico-emotiva di John Somebody, Johnson ha dato vita ad altre opere di eguale spessore, impegnando anche il quartetto d’archi e l’ensemble: personalmente sbilanciato su No Memory (1983), U79 (1989), How it happens (1993), Convertible debts (1996), fino ad arrivare a Mind Out Of Matter (2015), propongo per il lettore un apprezzamento anche sotto il profilo compositivo, circostanza a cui Johnson teneva molto e che specificò in 5 Movements, una bella composizione per solo chitarra elettrica e accompagnamento real time che viene dal pitch shifting di un harmonizer; chi vuole scoprire anche il Johnson orchestrale, con più strumenti e trattamenti, non sarà certo deluso.
Di Johnson si deve assolutamente considerare il ragionamento conciliativo sul conflitto tra regole classiche europee e consuetudini popolari americane, fondamentale per stabilire un’autorevolezza sui chitarristi all’elettrica. Per lui l’aggiustamento della prospettiva era un vantaggio per la scrittura: “…se c’è una ragione convincente per cui questo connubio di emozione e intelletto non può funzionare, allora qualcuno ha dimenticato di parlarne a circa 20 generazioni di compositori…”. Allo stesso tempo c’è anche una influenza indiretta da circoscrivere, fornita sulla base di spinte creative che arrivano da fonti musicali differenziate e che propongono la rivalutazione della sua intuizione, quell’involontarietà del canto che Johnson aveva già regolato nel plagio delle registrazioni: su quei binari estensivi si trovano oggi i teorici dei “fallimenti” della vocalità o i fautori del canto costruito spontaneamente sulle sue alterazioni.
RIP Scott Johnson