L’orchestra dei Sette Cieli e due duetti

0
578

Nel linguaggio italiano c’è ogni tanto la consuetudine di enfatizzare i momenti di gioia. L’espressione “sei al settimo cielo”, per esempio, cristalizza uno stato di felicità del nostro interlocutore che ha un’origine aristotelica-tolemaica, in quanto trae la similitudine emotiva dalle sfere celesti così come descritte dai filosofi greci a quei tempi: in una concezione dell’universo che non ancora aveva conosciuto la rivoluzione copernicana, la Terra era l’entità non gravitante e i suoi ‘estremi’ non raggiungibili erano le estensioni che si prestavano all’interpretazione religiosa; i cieli erano stratificati, in verità nove cerchi concentrici di grandezza variabile che indicavano la vicinanza a Dio. E’ evidente che il settimo cielo doveva essere uno dei più ambiti, perché in grado di rilasciare sensazioni fortissime e paradisiache.
Anche Ivo Perelman sembra aver compreso il concetto del ‘settimo cielo’, traslando però l’interpretazione religiosa nella filosofia musicale: ha creato un mini ensemble, la Seven Skies Orchestra, con Nate Wooley, Mat Maneri, Fred Lonberg-Holm, Joe Morris e Matt Moran e li ha invitati per una sessione di registrazione al Parkwest Studio di Brooklyn, pensando all’utilità di un incontro plurimo che avesse le caratteristiche di un’eudaimonia. Sebbene tutti siamo edotti sulla mancanza pressoché totale di qualsiasi scambio informativo tra i musicisti sia prima che durante la performance, è probabile che Perelman abbia insinuato preventivamente solo un’essenza distintiva del momento o un’idea costitutiva della performance e questa mia considerazione trova molto spazio non appena l’ascoltatore di Seven Skies Orchestra supera la prima tornata di ascolto; l’improvvisazione qui riveste un ruolo democratico tra i presenti, un’equilibrio delle singoli ‘voci’ che è gioia in primis (secondo il dettato greco) e armonia delle fonti. Se è vero che ci sono delle regole di commistione tra strumenti di un’orchestra o di un ensemble classico, è anche vero che esse possono essere subdolamente applicate ad un’orchestra o ensemble di improvvisazione, perciò le quasi due ore che compongono le 10 improvvisazioni di Seven Skies Orchestra devono essere ascoltate con la “presunzione” di aver di fronte a noi una complessità classica, dove reperire certe combinazioni strumentali o essere imbrigliati dalle bravura e le doti dei musicisti, in definitiva di ottenere un’estetica con le sue specificità.
Perelman ha avuto una bella idea nel raccogliere intorno a sé musicisti che hanno un loro tratto distintivo, ma che sono molto vicini a lui per spirito di riflessione e applicazione del pensiero musicale: l’agitazione e l’astratto espressionismo di Perelman che caratterizza il sassofonista brasiliano si mette al servizio di una libertà improvvisativa senza guide preventive di sviluppo, dove ogni musicista esprime un suo ‘timbro’ e una sua dinamica espressiva ed è su queste basi che crea la sua forza d’urto. Una somma complessiva superiore alle sue parti singole.

La contrapposizione degli spettri sonori tra strumenti che indicano una qualità intrinseca dello stile è il maggior riconoscimento che si deve fare a Perelman, nonché ai musicisti che lo circondano e che formano una parte dell’attualità della free improvisation. Con Tuning Forks, Perelman attua un connubio del sax tenore con il vibrafono, uno strumento con il quale il sassofonista si è misurato poco nel suo percorso artistico perché virtualmente poco compatibile dal punto di vista della riuscita della somma timbrica: nell’accorgersi, invece, di un’ulteriore evoluzione della sua musica, Perelman si è unito alle prodezze di Matt Moran, improvvisatore che sa muoversi con gran giudizio nelle moltiplicazioni indotte dalle situazioni improvvisative. Con Moran, Perelman ingabbia il principio della sovrapposizione casuale dello spettro citata prima, lavorando sotto l’influsso di una sub-sensorialità espressiva che la titolazione dei brani riesce a svelare: tra le sei improvvisazioni che compongono Tuning Forks, una vistosa aderenza all’idea di congiunzione astratta (l’intonazione che Perelman e Moran simbolicamente indicano nel diapason) la possiedono Pythagorean, un dialogo tra Perelman e Moran che si muove tra genomi misteriosi e un ambiente temperato, oppure Tesla, libera improvvisazione dei due musicisti che si muove in un turbine di energia; sono novità eclatanti per Perelman che si adopera per la “supposizione”, elemento sempre più forte nel dispiegarsi dell’improvvisazione del sassofonista brasiliano: un brano come Schumann, per esempio, in cui gli intenti musicali si cristallizzano forse in una forma mai ascoltata di sonata, può costituire le basi di un potente, nuovo mezzo di costruzione di canali poco battuti dell’espressione.

Con il trombettista Nate Wooley, Perelman pubblica anche un secondo volume di duetti. Polarity 2 ricalca una dialogicità estremamente creativa e afferma ancora una volta gli splendidi contenuti di un’interazione che i due musicisti forniscono negli sviluppi improvvisativi. Improvvisare a questi livelli significa avere una padronanza eccellente del proprio strumento, ma soprattutto dimostrare di avere un’estetica relazionale che riesce a piegarsi a forme, modi o funzioni che si evolvono nel tempo: Perelman e Wooley si fanno portavoci di più situazioni, usano accorgimenti tecnici che spingono al limite espressivo sax tenore e tromba, riflettono sulle ceneri del jazz e contemporaneamente provvedono alla sua ricapitalizzazione, si impegnano a trovare zone franche della condivisione senza che si possa perdere per strada la vitalità e l’imprevedibilità della musica.
In Polarity 2 ci sono due musicisti che dialogano senza nessuna certezza dei risultati del loro conversare, sono due musicisti che pongono come parte essenziale della loro espressione lo spazio relazionale, vissuto in una forma plastica: ciò che è importante è l’istante, i profili musicali casualmente raggiunti, in alcuni casi forieri di vere novità persino per gli artisti, così come succede per esempio in Four, allorché Perelman lascia il suo strumento per delle vocalizzazioni non-sense.
Questo duetto è un vero recupero della soggettività degli artisti, c’è stile e non c’è inganno, c’è voglia di conoscenza e non c’è egoismo: in due parole, dialettica senza perdita di identità.

Articolo precedenteJuste Janulyte: Iridescence
Articolo successivoMatteo Rigotti: ON MY WAY…
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.