Ricordo che negli anni della piena gioventù (forse 19 o 20 anni) fui preso dalla voglia di approfondire il blues, in un’epoca in cui era veramente difficile non lasciarsi affascinare dalle evoluzioni della chitarra elettrica. Tra le tante pubblicazioni discografiche che acquistai per realizzare il mio scopo (non c’era internet né le piattaforme per ascoltare) quelle relative a tutto il percorso degli anni sessanta di John Mayall mi misero parecchio in contraddizione con quanto la critica musicale e gli appassionati di musica scrivevano e pensavano del musicista inglese. A quei tempi esisteva una gran voglia di parlare di musica, di interrogarsi sulla validità del prodotto musicale, anche sui generi più popolari e il ricordo va ad una diatriba che leggevo tra i critici di jazz e quelli di rock in merito alla definizione e ai contenuti del British Blues, il movimento blues dei ‘bianchi’ cui Mayall rientrava: mentre i critici del jazz ritenevano blues solo quello di Bessie Smith, per i critici del rock il blues era proprio quello di Mayall, in breve uno scontro che probabilmente si giocava tra la sofferenza dei primi e l’edonismo dei secondi; ad ogni modo, non è corretto pensare a Mayall come un pioniere nei modi in cui la stampa di tutto il mondo vuol far passare, poiché basterebbe pensare al lavoro di Alexis Korner o Lonnie Donegan come musicisti inglesi antecedenti di Mayall; così come non si può evidentemente pionierizzare per Mayall l’uso della chitarra elettrica o dell’armonica (forse solo il suo polistrumentismo nell’area del british blues potrebbe essere considerato un primato).
Ritornando ai miei acquisti, di quella collezione di vinili che raccolsi su Mayall (tutti gli albums della sua discografia da Blues Breakers with Eric Clapton del 1966 fino a Moving On del 1973) ricordo in generale un canonico disquisire del genere, ad eccezione di una triade di albums che mostrava un’evidente differenziazione: Bare Wires (1968) e i live The Turning Point (1969) e Jazz Blues Fusion (1972) pendevano versi schemi influenzati dal jazz e dalla voglia di spingere il blues verso altri territori. Penso che più che i workshop organizzati nei Bluesbreakers per lanciare talenti, Mayall debba essere ricordato per questa -purtroppo- breve parentesi offerta alla maturità del blues, che conciliava il suo essere musicista con una pretesa di cambiamento e arricchimento del genere: l’enfasi era strumentale, nell’organizzazione di una forma libera di blues dove Mayall mostrò uno straordinario livello all’armonica, un’espressione che si inscriveva in una sorta di fusion music dalle coordinate personali, che manteneva però una somatizzazione blues. Qualcosa di molto differente da quanto stava succedendo con Davis, Corea o Zawinul.
RIP John Mayall