Nella musica facciamo di tutto per ottenere un livello accettabile di comprensione specie se essa è complessa. L’ascoltatore attento cerca di entrare nei codici comunicativi dell’artista, scoprendo quei segnali intenzionali che testo e musica possono offrire. Nel canto che propina un linguaggio non convenzionale, fatto di gestualità, parole senza un apparente significato o di sonorità acustiche dal risvolto morfologico, si cerca di lavorare su una trasmissione emotiva, che non provochi con naturalezza le usuali attribuzioni di significato.
Nina Baietta (1997) è una giovanissima cantante che ha ben compreso le direzioni del canto, proiettata nelle indagini dei linguaggi collegati all’uso della voce: ha studiato al Conservatorio di Venezia, collaborato con i compositori Tisha Mukarji e Giovanni Mancuso per opere presentate alla Biennale di Venezia del 2019 e profuso coordinazioni progettuali con improvvisatori liberi e performers: sotto quest’ultimo punto di vista, sono parecchie le esperienze fatte e le progettualità implementate da quando nel 2020 aprì con una sua composizione (Voix Humaine) il concerto del chitarrista Marc Ducret.
La sua giovanissima età non è assolutamente un problema per affrontare sfide nel suo campo e in men che non si dica arriva il suo primo CD dal titolo Ea: One – voice study on a wordless dictionary, un ‘oggetto alieno’ del canto che merita tutta la nostra decodificazione: 8 titoli che impongono un’interpretazione non fallace, senza uno straccio di musica, con la pretesa di creare un linguaggio armonico. Qual è il dizionario senza parole di Baietta? Interpellata sul punto Nina è caustica nell’affermare che “…i titoli di Ea sono traslitterazioni grafiche dei segni acustici che produco, basati sul linguaggio verbale umano. In quanto segni, sono arbitrari. L’arbitrarietà di questi segni e la coerenza formale interna è quello che permette loro di avere un’attribuzione di senso con risonanze emotive diverse in ogni persona che li legge, che li ascolta, che li esperisce…” (Baietta, testimonianza diretta).
E’ dunque sulla risonanza emotiva che si gioca la partita di Baietta e non c’è dubbio che sia una partita vinta: il canovaccio espressivo della cantante veneziana ha almeno due punti di riferimento nella storia del canto non convenzionale, da una parte sollecita i linguaggi comunicativi del canto di Meredith Monk, dall’altra tiene ben impressa l’originale sfruttamento della voce della primissima Joan La Barbara quando con Les Oiseaux Qui Chantent Dans Ma Tête istituiva similitudini con il verso iconico degli uccelli. Nella ricerca di Baietta c’è però la dimensione di un ancestrale afflato comunicativo, ancora un linguaggio inventato ma probabilmente sedimentato negli anfratti espressivi della fanciullezza. Se (s)U e (b)O impongono senza mezzi termini la bravura della cantante (la prima sui registri di un gabbiano ferito, la seconda lanciata sulle alture di tono da psicosi dell’avvertimento), le fioriture espressive di ua na-ha o na- (la prima costruita su scarne variazioni che fanno intuire lamento e riparo, la seconda una cantilena che si collega all’ambiente antico veneziano), fanno pensare a dei codici patologici della società, con i suoi rischi e contraddizioni attuali.
Ea: one voice – study on wordless dictionary propone dunque un’embrionale e personale forma teatrale di canto minimale, supportata solo dall’amplificazione del microfono che apre ad un leggera espansione spaziale, che ci sta benissimo nel caso di Baietta. Dimostra di poter far parte di quelle poche cantanti sperimentali in Italia che possiedono tanta luminosità progettuale e nessuna retorica.
Con un titolo non casuale riascoltiamo molto volentieri il percussionista Paolo Sanna. Stavolta si tratta di Disobbedienze, un lavoro che Sanna non esita a definire come ‘reazione, energia, ascolto’. Va da sé che il tipo di disobbedienza propinata da Sanna è di tipo culturale e va ricercata nel difetto di creatività e progettualità che attanaglia gran parte del mondo musicale odierno: disobbedire significa porre in essere un’alternativa, anche se solitaria e anacronistica. Chi segue queste pagine sa della sua ricerca, un work in progress continuo e maniacale che si nutre oltre che di una sana competenza in materia anche di esperimenti che coinvolgono qualsiasi combinazione sonora; in Disobbedienze c’è la dedica a Tony Oxley e un’immersione fenomenologica che mira all’imprevisto, alla scoperta da condividere tramite l’ascolto. A dir il vero, non è facile capire le ‘manovre’ di Sanna senza un supporto visivo, perciò ho contattato Paolo proprio per offrire ai lettori/ascoltatori un’integrazione informativa su come vengono ottenuti certi risultati: si tratta di 6 tracce, tutte impostate con un criterio differente:
1) in Tubos, Sanna ci conduce ad un effetto ‘granulato’ in itinere grazie a dei segmenti di tubi in alluminio simili a quelli usati dagli elettricisti (solitamente in plastica); la disobbedienza sta nell’idiosincrasia dei materiali e dei suoni.
2) Devil Chaser prende il nome da due omonimi strumenti filippini in bambù che Paolo mi indica anche come strumenti usati nei riti; l’effetto è quello di uno strano ritmo che si manifesta in un ciclo da 20 ottavi diviso in una sequenza del tipo 2+3+2+3+3+2+3+2, colpi che all’ascolto sembrano irregolari. Inoltre lo sfondo è curato con dei campanacci sfiorati con l’archetto.
3) Barattolini è un’insolita polifonia ottenuta con tre barattoli con l’apertura immersa per un quarto in acqua bollente, un pentolino che restituisce una sorta di ‘balletto acustico’. E’ un pezzo che ovviamente Sanna ha registrato nella sua cucina.
4) Acoustic Studies #10 – Gopichand, è un estratto dei suoi studi in cui si concentra sul gopichand, un particolarissimo strumento di origine indiana composto da una sola corda che è sistemata entro un bastone e una piccola cassa di risonanza; la particolarità deriva dal fatto che agendo con una pressione sui prolungamenti del bastone che circondano la corda si ottiene una variazione immediata di intonazione. Sanna suona il gopichand con una raspstick, una bacchetta di legno provvista di piccole scanalature.
5) P.za S. Gregorio è la traccia più lunga del CD, 23 minuti che riepilogano l’esperienza fatta in piazza S. Gregorio a Sardara, il paese della Sardegna dove vive Sanna. Il percussionista ritrae quell’ambiente non solo ponendo le basi d’ascolto in un field recording classico ma personalizzando e arricchendo l’esperienza con un microfono piezoelettrico incastrato in una molla di 3 metri fissata e sospesa in orizzontale e un noise box (una piccola scatola metallica con molle e lamelle).
6) The (B)rainforest and the crazy birds è un breve inciso che lavora burbero su una trama costruita con i bird calls.
Disobbedienze è decisamente ottimo, fornito di attualità e di selezioni elettive che provengono dall’esperienza quotidiana sul campo. E’ quasi un ‘seminario’ su ciò che significa essere un ‘percussionista’ vero.
Come già detto in precedenti occasioni, l’arte della de/ri-costruzione nasconde molte insidie che spesso si rivelano insostenibili. Grazie all’appiglio filosofico di Deleuze nella musica del secondo novecento si è aperto un solco di creatività e di esperimenti che hanno visto nel mezzo tecnologico il loro driver discriminatorio; la problematica della manipolazione elettronica non ha portato sempre buoni frutti e l’attuale, imperante de/ri-costruzione che gira intorno alla musica di tutto il mondo non sembra appropriarsi di particolari concetti di bellezza. Per dirla in breve, il mezzo tecnologico porta l’estetica fuori binario.
Nel suo Playing The Folk, Roberto Fega cerca di mantenere un ponte efficace tra i temi della musica popolare e l’atto della manipolazione e non fa certo parte dell’area musicale di cui accennavo prima; la sua è un’operazione rispettosa, che si nutre di frammenti musicali di cantanti e musicisti-ricercatori di folk e musica popolare di altri paesi, un’operazione che porta con sé anche una mentalità del far musica e della vita. La selezione degli autori che Fega prende in considerazione non è casuale, si basa evidentemente sull’ascolto e sul rinnovo delle risorse e stavolta è andata nella direzione degli italiani Federico Pascucci, Valerio Mileto e Massimiliano Felice, della portoghese Juliana Azevedo, del turco Selen Capaci e del cantante Mubin Dunen del Kurdistan; probabilmente Playing The Folk può considerarsi un outtakes dei due volumi di Folk!, contiene delle piccole perle come l’iniziale Gaza Kids Voice, in cui la sostanza techno è perfettamente amalgamata con i frammenti di taksim e oud tratti da una canzone di Mileto e la vocina in eco di un bambino; oppure come i quasi sette minuti di Inside The Head, dove il battito e il campionamento reggono armonicamente una struttura modificata di un coro tradizionale portoghese che proviene dalle risorse di Azevedo; o ancora come Salterello, in cui Fega con genialità tiene uniti i frammenti di una danza popolare ‘rubata’ a Massimiliano Felice e una fisarmonica diatonica.
Playing The Folk stuzzica probabilmente l’attuale presa di coscienza di Fega sui fatti del mondo, realizzando con sagacia una classificazione degli ambienti che ha due facce, una inquieta e l’altra che vive in pace una finzione.