E’ da tempo che le pubblicazioni discografiche di Ivo Perelman impongono un cambiamento di prospettiva su timbri, tipologie di binomi musicali o incontri dell’improvvisazione attuati con un logica musicale preventiva. Non potremo più considerare Perelman come un musicista affascinato solo dall’arte dagli idiomi basici del trio jazz, per esempio, né pensare che esista una sola soluzione musicale nell’ambito di un duo piano-sax o batteria-sax che si incastri nella sua considerazione. Perelman ha cercato sempre di trovare nuove sfumature dell’espressività, con partners diversificati e non ridondanti, quelli che nei fatti potessero sorreggere la prospettiva del momento e, dal punto di vista del livello di parametri musicali propinati nella free improvisation, ha ottenuto un valore inventivo che non si può negare. Il 90% delle pubblicazioni discografiche di Ivo degli ultimi venticinque anni va giudicato con questo criterio e la storia continua.
Una splendida novità arriva da Parallel Aesthetics, lavoro in duo con il pianista-batterista Tyshawn Sorey. Si tratta di 2 CD, equamente divisi in performance pianoforte-sax tenore e batteria-sax tenore: ciò impone un paragone tra i duetti di Ivo sui due strumenti incontrati. Sappiamo benissimo che il suo pianista di riferimento è (e sarà sempre) Matthew Shipp, con un’imponente discografia alle spalle, tuttavia è bene ricordare che Perelman ha suonato anche con il grande e direi (purtroppo) quasi dimenticato Borah Bergman (Geometry, Leo R. 1997) e con Karl Berger in Reverie (Leo R. 2014); tutti i pianisti citati incorporano la psicosi free jazz con un proprio sviluppo tematico che non prescinde nemmeno in Sorey, ma ciò che fa la differenza nella loro espressione libera si gioca su alcuni fattori, in primis la presenza o l’assenza della cosiddetta ‘ruminazione’ tayloriana, ossia quelle veloci e intense scale ascendenti o discendenti che Taylor ha portato persino alle estreme conseguenze: Sorey in Parallel Aesthetics si pone tra Bergman e Shipp, evidenziando la complessità di fondo del pianismo moderno e post free-jazz; non solo scale, ma anche tocchi funzionali, lavorazioni timbriche e persino interventi nell’interno-corde del pianoforte. Con Perelman queste complessità di percorso funzionano a meraviglia, sono strategie dell’improvvisazione variabili e casualmente concludenti (ecco il perché delle ‘estetiche parallele’), in grado di evidenziare il massimo dell’espressione: inutile dire che Perelman, con i suoi accenti e le sue tecniche, fa drizzare i capelli all’ascoltatore nei suoi assoli.
Dal punto di vista della disamina Perelman-Sorey come connubio sax tenore->batteria, anche qui è obbligo ricordare i precedenti di Ivo: con Jay Rosen (The Hammer, Leo R. 2000), con Gerry Hemingway (The apple in the dark, Leo R. 2010), con Brian Wilson (The Stream of Life, Leo R. 2010), con Whit Dickey (Tenorhood, Leo R. 2015), con Tom Rainey (Duologues 1, Ibeji R., 2024); qui trovare delle chiavi di differenziazione è molto più difficile poiché il polistilismo free jazz che caratterizza lo stile di tutti i batteristi presenta omogeneità diffuse, ad ogni modo Rosen e Hemingway sono due pensatori della batteria, particolarmente attenti alla costruzione dell’improvvisazione, mentre Dickey ha un drumming più possente, alla ricerca di una vibrazione effettiva; Sorey si dimostra perfetto per Perelman in Parallel Aesthetics perché tesse una ‘tela’ di poliritmi molto interattiva e in grado di evidenziare la ricchezza timbrico-espressiva del sax tenore di Perelman: anche qui si potrebbe indicare per Sorey una via mediana tra ‘costruzione’ e ‘vibrazione’ che non fa altro che far bene a Perelman.
Registrato negli usuali Parkwest Studios di Brooklyn a New York nel settembre scorso e pubblicato per celebrare i 10 anni dell’etichetta polacca Fundacja Słuchaj, Parallel Aesthetics è senza dubbio già pronto per entrare nel gotha delle registrazioni di Perelman nonché nelle liste dei best di fine anno. Lo ripeto sempre: Perelman è il massimo esponente dell’espressività al sax tenore, un musicista che senza artifici (sax pesantemente preparati o elettronica collegata allo strumento) ha raggiunto un livello incredibile di comunicabilità con il suo strumento, qualcosa che ha il profumo dei suoi dipinti e di un’arte astratta altamente emotiva.
Il secondo CD pubblicato quest’anno da Perelman è ciò che si presenta come l’incastro di uno strano trio di strumenti a fiato: Oxygen è il risultato di una sessione improvvisativa fatta nel dicembre del 2021 tra Ivo al sax tenore, Ken Vandermark al sax baritono e Joe McPhee al trombone. Si tratta di 6 improvvisazioni libere di un trio pensato probabilmente per riflettere sul ‘respiro’ effettuato in condizioni difficili o impossibili, un’idea che è corroborata dalla titolazione (Oxygen, Carbon, Sulfur, Phosphorus, Nitrogen, Hydrogen) e dal tipo di espressione adottata, parecchio insolita; la title-track è già un programma di intenti, dove ad un inizio armonico fuso in un paio di registri dei 3 strumenti si sostituisce un agile step di improvvisazione dove Perelman snocciola la sua espressione, Vandermark adotta un piano variabile (risposta attiva o propulsione con il basso sostenuto), mentre McPhee è caustico sul trombone, con solismo grullo e tecnica estensiva tesa alla confusione spettrale del timbro (quasi un filtro di rumore bianco). Attese funzionali, creatività, parentesi sonore combustive, punteggiature e un clima di apprensione generale sono le determinanti della bellezza di Oxygen, che ci giunge come una collaborazione riuscita perché, aldilà delle probabili motivazioni adottate, suscita l’idea di una pluralità con appena 3 strumenti, quasi il frutto di un lavoro ‘sinfonico’ (dicono le note), aggiungerei di un lavoro che ha avuto il merito di non avere nessuna partitura da rispettare.