Se dovessimo attribuire paternità o influenze sulla libera improvvisazione, non potremmo certamente riferirci ad una sola fonte. Un’analisi profonda dei legami della storia, unita a delle interpretazioni non fallaci e supportate da una logica, ci conducono a qualcosa di più di quanto rivendicato dai musicisti e studiosi del jazz. Se gli sviluppi della musica afroamericana sono importanti per inquadrare una tendenza di base dei musicisti-improvvisatori, è anche necessario ammettere che risorse fondamentali sono arrivate dall’arte europea del Novecento, dai movimenti aleatori creati nel mondo della composizione, dall’elevazione a potenza della performance e dei networks interdisciplinari (Fluxus, spettacoli dell’happening, futuristi, dadaisti, surrealisti, etc.). Soprattutto le prime generazioni di improvvisatori liberi (i musicisti nati intorno alla seconda guerra mondiale e quelli nati tra la metà e la fine degli anni cinquanta del secolo scorso) hanno incarnato queste risorse nel loro DNA, unendole ad una pratica di condivisione sociale e politica. A differenza di quanto si può pensare, gli improvvisatori liberi hanno anche materializzato le consuetudini di un’arte musicale autonoma fatta di ore e ore di pratica giornaliera, un modus operandi finalizzato all’espansione delle competenze sugli strumenti: tra questi musicisti, uno bravissimo che vi regala tutte queste qualità appena accennate è lo specialista del sax soprano Gianni Mimmo (1957).
Di Mimmo, su queste pagine, ne abbiamo parlato sempre con ammirazione e in passato Donatello Tateo ci regalò anche un’intervista quando la rivista Percorsi Musicali esisteva nella forma di blog (puoi leggere liberamente l’intervista qui); a proposito di Gianni, devo rimarcare non solo l’importanza e il valore del musicista nell’ambito di ciò che è stata la storia della libera improvvisazione e del jazz in Italia, ma ribadire anche la nostra amicizia, bella, sincera, allegra e sempre piena di discussioni e spunti progettuali costruttivi; tante telefonate, discorsi sull’arte e sulla musica e una stima incondizionata reciproca acclarata nei nostri incontri personali. Sentivo da tempo il desiderio di voler estrapolare in scrittura un pò delle nostre conversazioni e penso che questo sia il momento migliore per farlo, poiché Gianni sta raggiungendo un culmine internazionale, ottenendo riconoscimenti all’estero che si aggiungono alla sua preziosa attività concertistica italiana; dopo aver accantonato l’esperienza di Amirani Records, l’etichetta discografica da lui gestita che ha pubblicato 75 CD ottemperando ad una dimensione contemporanea della musica, Gianni ha riflettuto sul suo modo di essere musicista e senza fermarsi mai ha cominciato a dedicare il suo tempo all’arte del vivere, qualcosa che ricorda un pò per analogia il surrealismo di Magritte e le motivazioni nascoste nel suo quadro L’arte di vivere, dove si nota una divisione funzionale tra corpo (un abito maschile con giacca e cravatta rossa) e testa (una grande palla con piccoli lineamenti di un viso al centro), un modo per evidenziare come sia importante la riflessione, l’esperienza e una connessione surreale che vada oltre l’ottica del mondo per ottenere un equilibrio vero. La ricerca di Gianni è la ricerca di una luce nell’oscurità che attanaglia oggi la prospettiva umana intelligente.
Prima dell’intervista, vorrei spendere due parole di apprezzamento sull’ultima produzione discografica di Gianni, ossia Say When, un duetto con Ove Volquartz (a clarinetto basso, contrabbasso e flauto) pubblicato per Aut Records qualche mese fa; è al solito, una testimonianza del valore artistico del sassofonista nonché brulica di quella bellissima filosofia interpretativa che si stabilisce in tutta la sua musica. Say when è improvvisazione libera fluida, dove l’istinto real time dei musicisti si trasferisce con opportuno sviluppo sugli strumenti: i due musicisti lanciano dettagli da decifrare nello spazio dell’ascolto, linee melodiche ‘gentili’ (la title track o anche Athen Amidst the Olive Trees), punteggiature fantasiose (Stay Reluctant) o anche gangli armonici (More than One Threshold ma soprattutto Distant Peaks), a volte sovrapponendosi altre volte rendendosi complementari. Le liner notes di Andrea Dani e la cover CD di Andrea Montanari cercano di oggettivare una relazione musicale che sta tra Jean Dubuffet e le tecniche di collage. Dubuffet è uno dei pionieri dimenticati della free improvisation e basterebbe andare a rovistare nella sua musica (che era comunque un’appendice della sua personalità pittorica e scultorea) per capire che l’Art Brut nei primi anni sessanta del Novecento era già una forma di arte spontanea e terribilmente matura che doveva fare i conti con le cognizioni accademiche per via di una considerazione dell’arte accessibile a tutti (soprattutto il riconoscimento di una superiorità creativa dei bambini, dei portatori di deficit mentali o clienti di cliniche psichiatriche); tuttavia in Say When se è vero che verifichiamo un’eguale spontaneità della musica è anche vero che non c’è aderenza alla musica caotica e rumorosa di Dubuffet e si esclude Distant Peaks, che a causa degli armonici rumorosi strappa delle somiglianze, si è comunque distanti da un automatismo delle posizioni musicali e più vicini ad una forma sonica prescrittiva che è il frutto delle qualità e delle sensibilità dei due musicisti.
Quanto a Montanari, poi, è evidente che la relazione che vuole essere instaurata con Say When è quella di due ‘corpi’ che fluiscono e perciò il disegno è scelto con oculatezza: il messaggio alla fine è chiaro perché la fluidità e il divenire quasi idilliaco della musica significa arrivare alla dimostrazione che esiste una saggezza aldilà degli eventi, la quale è indispensabile per affrontare le turbolenze del mondo, è qualcosa che unisce e si attesta in un’area di resilienza: Say When dona benessere all’ascolto, è una ricerca di luce che si scorge in un atteggiamento e un’effusione musicale, uno standard che