Non sono pochi a pensare che Miles Davis non fosse un granchè come trombettista e che la sua bravura confidava soprattutto nel fatto di saper cavalcare le mode in tempo utile. Bowie ha fatto lo stesso: la moda del rock spaziale, il glam-rock, l’elettronica berlinese, il funk e la musica danzabile di stile, la riscoperta del blues negli anni ottanta, il boom dell’industria cinematografica collegata alla musica, etc. sono stati fattori caratterizzanti prima della stasi post-novanta: la sua produzione migliore va ricomposta con una cesoia, perché è evidente l’inconsistenza di molte sue opere. Una reticenza di una certa critica rock è quella di non evidenziare i casi di mancata coerenza artistica: anche i più venerabili musicisti hanno costruito discografie senza il requisito della costanza, spesso con lunghe pause rivelatrici di una mancanza di ispirazione o di una voglia di soddisfare le richieste dei discografici. Bowie non si esime da questa considerazione.
Fatta salva questa impostazione, il Bowie più capace di suscitare interesse per scrittura di canzoni, canto, validità degli arrangiamenti o per scelte di produzione sta soprattutto in Hunky Dory, sincera direzione del musicista inglese verso una forma cantautorale matura; in The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, un album del 1972 che si spendeva per una narrativa che sarebbe stata perfetta per una rappresentazione teatrale; nei travestimenti musicali azzeccati di Alladin Sane, che vive nella scia di una sorta di schizofrenia espressiva dell’autore totalmente autonoma; nella trilogia da infatuazione elettronica con Brian Eno in Low, Heroes e Lodger, garanti di apertura a nuove e più elaborate tendenze della musica popolare dei settanta; nell’eleganza di certe forme danzabili collegate all’era del funk, della videomania e delle sovraincisioni (qualcosa di Young Americans e Let’s Dance); nelle disullusioni cinematografiche di This is not America, uno degli estratti migliori della carriera di attore e produttore di soundtracks, con le provvidenze stilistiche di Pat Metheny nel film Il gioco del falco.
Si è molto enfatizzata la morte dell’artista, soprattutto dopo la presa in visione di Lazarus, brano presentato anche con un video a supporto che lo ritrae malato in una stanza squallida: pubblicato come singolo del suo ultimo album (Blackstar), in molti hanno visto in Lazarus l’ultima rappresentazione scenica preparata della sua vita.
Fatta salva questa impostazione, il Bowie più capace di suscitare interesse per scrittura di canzoni, canto, validità degli arrangiamenti o per scelte di produzione sta soprattutto in Hunky Dory, sincera direzione del musicista inglese verso una forma cantautorale matura; in The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, un album del 1972 che si spendeva per una narrativa che sarebbe stata perfetta per una rappresentazione teatrale; nei travestimenti musicali azzeccati di Alladin Sane, che vive nella scia di una sorta di schizofrenia espressiva dell’autore totalmente autonoma; nella trilogia da infatuazione elettronica con Brian Eno in Low, Heroes e Lodger, garanti di apertura a nuove e più elaborate tendenze della musica popolare dei settanta; nell’eleganza di certe forme danzabili collegate all’era del funk, della videomania e delle sovraincisioni (qualcosa di Young Americans e Let’s Dance); nelle disullusioni cinematografiche di This is not America, uno degli estratti migliori della carriera di attore e produttore di soundtracks, con le provvidenze stilistiche di Pat Metheny nel film Il gioco del falco.
Si è molto enfatizzata la morte dell’artista, soprattutto dopo la presa in visione di Lazarus, brano presentato anche con un video a supporto che lo ritrae malato in una stanza squallida: pubblicato come singolo del suo ultimo album (Blackstar), in molti hanno visto in Lazarus l’ultima rappresentazione scenica preparata della sua vita.